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Sugli UFO, mezze verità. Cosa sta arrivando dallo spazio?

Articolo di Giorgio Cattaneo, uscito il 15 Luglio 2021 sul sito Libreidee.

Perché sono così irrisorie, le attesissime rivelazioni sugli Ufo da parte degli Usa, che pure ora ammettono l’esistenza del fenomeno dopo decenni di silenzi e bugie? Se lo domanda lo storico Nicola Bizzi, appassionato studioso di archeologia e mitologia. Bizzi avanza un’ipotesi: stanno forse per ammettere l’alleanza terrestre con una “razza” aliena? Temono che tutto diverrebbe di dominio pubblico, nel caso dallo spazio entro il 2024 giungessero ben altri alieni? Per la precisione, potrebbero essere in arrivo i nostri antichi, veri “creatori”: nel caso, potrebbero liberare l’umanità dal giogo schiavistico imposto dagli attuali dominatori extraterrestri, quelli che da millenni pilotano i poteri terreni e condizionano le menti attraverso le religioni? Tesi che Bizzi rilancia, in un appassionante excursus tra storia e giornalismo d’inchiesta, ufologia e antropologia, conquiste scientifiche e tecnologiche, miti dell’antichità, fantascienza e conoscenze di oggi. La paura del ritorno degli alieni “buoni” ha forse motivato anche l’attuale crisi planetaria, scatenata in termini di Great Reset per il controllo della popolazione? Sarebbe in corso addirittura una guerra inter-planetaria, in procinto di approdare sulla Terra? E dunque: siamo sul punto di scoprire, definitivamente, che la stessa umanità ha davvero origini aliene, finora risolutamente negate?

Bizzi

E’ stato calcolato che, se la nostra civiltà dovesse collassare, tutti i manufatti umani – inclusi gli edifici in cemento armato – verrebbero letteralmente disgregati dalla vegetazione. Fra 1-2 milioni di anni non resterebbe più niente, dell’attuale ciclo di civiltà terrestre, se non uno strato di carbonio e metalli pesanti. Uno strato dello spessore di appena alcuni centimetri, diffuso in modo uniforme in tutto il mondo. Sarebbe il residuo dell’interazione dell’attuale umanità con il nostro pianeta. Ma uno strato simile esiste già, in tutto il mondo: viene chiamato Limite Kt e risale alla fine dell’Era Mesozoica, cioè al periodo che vide la scomparsa dei grandi dinosauri, circa 65 milioni di anni fa. Potrebbe significare che 65 milioni di anni esisteva una civiltà, non sappiamo se umana o di altra natura, di cui resta solo quel misero strato di carbonio e metalli pesanti. Questo è inquietante, ma la dice lunga su come non sappiamo niente, del vero passato del nostro mondo, dove la comparsa dell’uomo non è ancora stata spiegata: la nostra possibile origine aliena viene dibattuta dagli scienziati solo a porte chiuse, perché metterebbe in crisi qualsiasi teoria finora sviluppata sulla nostra genesi.

Corso

Io ho trovato ridicoli i recenti annunci, da parte degli Usa, di ipotetiche rivelazioni sugli Ufo. Hanno semplicemente confermato quello che aveva appena ammesso la marina statunitense, ovvero che lo spazio aereo viene costantemente violato da velivoli di varia natura, che le autorità (ufficialmente) sostengono di non essere in grado di verificare e classificare. E’ la scoperta dell’acqua calda, ma senza sincerità: sanno benissimo che molti velivoli attraversano i cieli, con il pieno consenso degli apparati militari e della politica americana. Consenso, poi, è una parola grossa: perché gli intrusi, in realtà, fanno quello che vogliono. Negli anni ‘50 e ‘60, l’Unione Sovietica apriva il fuoco, contro gli “oggetti volanti non identificati”; ha smesso di farlo quando certi velivoli, rispondendo al fuoco, hanno raso al suolo le basi militari sovietiche. E così, alla fine, con gli alieni sono scesi a patti anche loro. Notevole l’ipocrisia: sanno benissimo che questi velivoli scorrazzano impunemente dove vogliono. Ora si sono decisi a confermarci ufficialmente che esistono, però tacciono completamente sui retroscena della questione.

Con alcune civiltà aliene, gli Stati Uniti hanno stipulato veri e propri trattati già ai tempi di Eisenhower. E’ tutto documentato: ne ha parlato a lungo, nei suoi libri, il colonnello Philip Corso, che negli ultimi anni della sua vita ha deciso di vuotare il sacco. Il colonnello Corso aveva altissimi incarichi, strettamente segreti: si occupava proprio dell’interazione con queste civiltà non terrestri. Un’interazione che, in passato, aveva riguardato altre nazioni: la Germania di Hitler era stata a sua volta in contatto con alcune civiltà aliene, che – non sappiamo in cambio di che cosa – le avevano trasferito tecnologie avanzate (che nella Seconda Guerra Mondiale sono poi state impiegate solo in minima parte, dato che quelle applicazioni erano ancora in fase di sperimentazione). Poi è toccato agli Stati Uniti: hanno concesso basi terrestri e libertà di sorvolo, ricevendo in cambio alcune “gocce” di tecnologia. Secondo alcune interpretazioni, che ritengo verosimili, il recente balzo tecnologico globale (dal transistor al microchip, fino quindi all’informatica e alla telefonia) sarebbe in buona parte il prodotto di “retroingegneria aliena”, incluso l’impiego del grafene, materiale magnetico ora rilevato nei “vaccini genici” anti-Covid.

Le immagini dalla sonda Soho

Le missioni lunari della Nasa (poi proseguite in silenzio) all’epoca delle missioni Apollo erano state finanziate da una grande compagnia di telecomunicazioni, la At&T, dopo che sulla Luna, oltre alle basi spaziali aliene attualmente in funzione, erano state individuate basi molto antiche: strutture in rovina, coperte da enormi cupole trasparenti, costruite con un materiale che alla At&T interessava molto. Ed è grazie a questo materiale, prelevato nel contesto delle missioni Apollo, che è stata realizzata su scala globale la fibra ottica. Teniamo conto del fatto che le forze armate di potenze come Usa, Russia e Cina sono trent’anni avanti, rispetto alla società civile: le super-tecnologie di cui dispongono le rilasciano a noi civili solo quando ormai, per loro, sono diventate obsolete. Una dinamica che la fantascienza ha anticipato, mostrando tecnologie strabilianti che poi, decenni dopo, sono diventate di uso comune. Ma il problema di fondo è un altro: non possono ammettere che con civiltà aliene sono stati stipulati trattati, taciuti all’opinione pubblica. Perché allora, proprio adesso, si ufficializzano determinate ammissioni, come quella sulla reale esistenza degli Ufo?

Secondo alcune interpretazioni, questo è dovuto a un fatto: negli ultimi anni, a violare lo spazio aereo (degli Usa e di altre nazioni) sarebbero state anche componenti nuove. Quando gli Usa sostengono di non essere in grado di verificare l’identità degli intrusi, probabilmente non mentono: sapendo benissimo quali sono i loro alleati, sanno anche che – da qualche tempo – nuove civiltà (che non conoscono, e con cui non hanno nessun accordo) vanno e vengono, a spasso nei nostri cieli. Sarebbe stata questa nuova presenza, di fatto, a mettere in allarme le civiltà aliene già presenti qui, alcune da molto tempo, altre da epoche più recenti: temono l’arrivo di altre forze, che potrebbero essere loro ostili? L’allarme coinvolgerebbe le stesse forze armate americane, se è vero che – a loro volta – non sanno a chi appartengano alcuni dei velivoli che sorvolano il loro spazio. Sonde orbitali come la Soho, che monitorano il Sole, da circa tre anni stanno rilevando l’arrivo di enormi astronavi, che sfrutterebbero una sorta di “portale dimensionale”.

McKinnock

Si tratta di astronavi gigantesche, che appaiono dal nulla in prossimità del Sole e si dirigono poi verso il sistema solare esterno, passando quindi vicino alla Terra, a Venere e a Marte, in direzione di Giove e Saturno. Non so dire di cosa si tratti, ovviamente. Ma so che c’è grande fermento, anche in ambienti d’intelligence. C’è chi teme che possa essere prossimo (addirittura si parla del 2024) il ritorno in forze, nel sistema solare, di determinate civiltà aliene che sarebbero state costrette a lasciare la Terra alcuni millenni fa. La loro partenza sarebbe stato l’esito di una guerra, combattuta attorno a 21.000 anni fa, cioè verso il 19.000 avanti Cristo. Quella guerra – estesa anche su altri sistemi stellari – avrebbe visto sconfitte determinate civiltà aliene che erano presenti sul nostro pianeta. Secondo certe fonti, questa civiltà avrebbe avuto caratteristiche umanoidi e avrebbe contribuito alla manipolazione genetica dei nostri “antenati” primati, quindi alla creazione di una parte di umanità. Questa civiltà starebbe dunque tornando, e andrebbe a scompaginare lo status quo attuale, su cui c’è stato sempre il massimo segreto.

Pare ad esempio che la Nasa sia soltanto uno specchietto per le allodole, per distrarre l’opinione pubblica. Un hacker molto coraggioso, lo scozzese Gary McKinnock, violando i siti della Nasa, del Pentagono e di alcune agenzie dell’intelligence militare Usa, vent’anni fa riuscì a scoprire l’esistenza di quella che viene definita “flotta spaziale segreta”, di fatto ammessa, a suo tempo (di proposito o meno, non si sa) dallo stesso Ronald Reagan, che in televisione disse che le astronavi Usa era in grado di trasportare fino a 300 persone, quando lo Space Shuttle si limitava a 4-5 astronauti. Già prima della creazione dell’attuale Space Force finalmente ufficializzata da Trump, a gestire i programmi spaziali segreti (con fondi neri, pressoché illimitati) è sempre stata la marina militare Usa: e le navi spaziali scoperte da McKinnock erano classificate Usss, con la tripla S (Unites States Space Ship). Questa “flotta spaziale segreta” avrebbe realizzato basi permanenti sulla Luna e, dalla fine degli anni ‘70, altre basi anche su Marte, su alcuni asteroidi orbitanti nel sistema solare e addirittura su alcuni satelliti di Giove.

Basi su Marte?

Tempo fa sono circolate immagini che mostrerebbero una delle basi presenti su Marte: edifici che sembrano chiaramente terrestri, in quanto circondati da enormi distese di pannelli solari (tecnologia energetica che si può considerare “antiquata”, dunque nostra). Già negli anni ‘80 sarebbe stata varata l’operazione Uomo della Luna: tutte operazioni molto oltre il top secret (”cosmic secret”, oserei dire). Chiaramente, certe flotte utilizzano una tecnologia molto avanzata, di stretto appannaggio militare. Forze armate votate al silenzio? Non sorprende: il segreto protegge regolarmente molti aspetti delle “missioni di pace” terrestri, oltre alle missioni “coperte”. Tanti soldati morti vengono archiviati come vittime di incidenti, per non ammettere l’esistenza di operazioni clandestine, fuori dalle regole d’ingaggio. Figuriamoci se possono ammettere operazioni nello spazio, su altri pianeti del sistema solare.

Tornando a noi: sono attendibili, le voci che parlano di un ritorno non preventivato di forze che sarebbero state costrette a lasciare la Terra 20 millenni fa? Se questo ritorno fosse reale, magari previsto proprio per il 2024, potrebbe essere una delle tante ragioni dell’improvvisa accelerazione imposta a certi piani di “nuovo ordine mondiale”, in termini di controllo sociale. La verità è che, sulla Terra, c’è un potere (anche politico, oltre che economico) che esula davvero da quello che noi, normalmente, conosciamo come “la politica”. E’ vero che l’agenda politica è sempre stata dettata da organizzazioni sovranazionali che controllano i governi e l’economia del pianeta; ma a quanto pare esiste ben altro, al di sopra. Molti se lo domandano: cosa c’è, ai vertici della piramide del potere? Ebbene: ci sono anche delle realtà non umane.

Incontri ravvicinati

Alcune informazioni, comunque, non circolano solo in ambito ufologico: sono diffuse anche a livello di intelligence, presso agenzie governative statunitensi, britanniche, israeliane e anche di alcuni paesi asiatici. Se è vero che questa presenza esiste, e che parecchie nazioni avrebbero accordi con diverse, distinte “razze” aliene stabilmente stanziate sul nostro pianeta, queste presenze sarebbero qui per mero interesse. La Francia, ad esempio, avrebbe accordi politici con alcune di queste “razze” (una, sopra le altre), mentre gli israeliani a loro volta avrebbero accordi con una “razza”, molto particolare: un’intesa che avrebbe motivi storici, perché l’alleanza sarebbe già stata stretta in passato. Gli Stati Uniti, poi, avrebbero accordi con almeno tre di queste “razze” aliene. Secondo gli ufologi, poi, anche la Turchia avrebbe proprie truppe nello spazio, però nell’ambito della flotta spaziale americana (i turchi non avrebbero una propria flotta).

Qui però dobbiamo sfatare una visione secondo me fuorviante e molto perniciosa: anche in ambito ufologico ed “esopolitico” si tende a umanizzare certe civiltà aliene, perché noi siamo sempre portati a ragionare in un’ottica umana, antropocentrica, e a rapportare secondo il nostro punto di vista tutto quello che immaginiamo. Noi riteniamo – secondo me, sbagliando in pieno – che una civiltà capace di viaggiare nello spazio, infinitamente più avanzata di noi sul piano tecnologico, debba per forza essere evoluta anche da un punto di vista etico. Questa è una grande idiozia, che nasce da un ragionamento prettamente umano. In modo idilliaco, new age, tendiamo a considerare benevole certe civiltà aliene, solo perché molto avanzate. Ma chi ci autorizza a pensare che queste civiltà siano davvero benevole? Se avessero veramente a cuore le nostre sorti, intanto interagirebbero direttamente con l’intera umanità, e lo farebbero da tempo. E invece no: da millenni, si limitano a controllare i nostri governi, a manipolare la coscienza dei terrestri: pare che certe civiltà abbiano creato a tavolino anche determinate religioni monoteistiche, per far sì che l’umanità non si ponesse domande e restasse sempre soggiogata. E questo avverrebbe da epoche incredibilmente remote.

Anunnaki

Ho parlato spesso delle tracce della presenza aliena nel passato, attraverso reperti archeologici, raffigurazioni, testi antichi. Sappiamo che autori come Zecharia Sitchin hanno interpretato alla lettera certe tavolette sumere, da cui traspare una vera e propria civiltà aliena all’origine della civiltà sumerica. Del resto, i Sumeri ci parlano proprio della “creazione” dell’uomo. E dobbiamo essere consapevoli del fatto che buona parte di ciò che è contenuto nella Bibbia è di derivazione mesopotamica, dunque sumerica. I Sumeri parlano della “creazione”, a opera degli Annunaki, di una parte dell’umanità: una certa umanità, nella quale si identificavano. E chi erano, i “creatori” Annunaki? I Sumeri li definiscono dèi: una schiera di dèi, provenienti da un pianeta da loro chiamato Nibiru, che in sumero-accadico significa “colui che attraversa”. Per i Sumeri, in possesso di elevatissime cognizioni astronomiche, Nibiru ha un’orbita ellittica lunghissima, che lo porterebbe a intersecare il sistema solare interno (il nostro) ogni 3.600 anni.

Negli ultimi decenni sono stati scoperti numerosi pianeti trans-plutoniani, con orbita effettivamente ellittica, ospitati nella vastissima Fascia di Kuiper: e Nibiru (non ancora identificato, ufficialmente), sarebbe uno di questi; ritengo però inverosimile che la ipotetica patria degli Anunnaki possa davvero ospitare la vita, restando lontanissima dal Sole per periodi di tremila anni, a meno che ad essere abitato non sia il suo sottosuolo. Resta il fatto che – stando sempre alle tavolette sumere – gli Anunna avrebbero creato la “loro” umanità per mere esigenze lavorative. Erano interessati all’oro, metallo che era necessario per renderli longevi, e quindi erano attratti dai giacimenti auriferi terrestri. Per l’estrazione mineraria, secondo la tradizione mitologica sumera, si servirono inizialmente degli Igigi: una sorta di dèi minori, cugini sfortunati degli Anunnaki. Poi gli Igigi si sarebbero ribellati, rifiutando lo sfruttamento cui erano sottoposti, e allora gli Anunna avrebbero “creato” una certa umanità, attorno a 200.000 anni fa, per rimpiazzare gli Igigi (non certo per altruismo: servivano minatori e operai per lavori pesanti).

Cro Magnon

Curiosamente, l’Homo Sapiens appare proprio attorno ai 200.000 anni fa. E nessun paleontologo (darwiniano o di altra scuola) è in grado di spiegare l’improvviso, incredibile balzo evolutivo rappresentato dal Sapiens. La natura terrestre è molto lenta: la nascita di nuove specie, per gli scienziati, richiederebbe centinaia di migliaia di anni (se non milioni di anni). Balzi evolutivi come quello del Sapiens non sono concepibili, a livello scientifico, se non in termini di almeno mezzo milione di anni, e solo per apportare minime variazioni. Invece il Sapiens è comparso di colpo, 200.000 anni fa, con una massa cerebrale quasi doppia rispetto a quella dell’Homo Erectus. Tra le due specie, gli anelli di congiunzione non sono mai stati trovati. Al contrario: reperti fossili mostrano che, 200.000 anni fa, l’Homo Erectus era sul punto di estinguersi, dopo aver abitato la Terra per milioni di anni. Non è credibile, che sia proprio una specie in declino ad evolvere, di colpo, raddoppiando le dimensioni del proprio cranio.

Nell’illuminante libro “Resi umani”, scritto da Mauro Biglino con il biologo molecolare Pietro Buffa, si sostiene che tutte le evidenze portino a pensare al ruolo di “attori terzi”, nella creazione di una consistente parte dell’umanità. Altro elemento inspiegabile è la nascita del Cro-Magnon, che appare in maniera repentina e misteriosa, soprattutto in Europa, attorno a 35-40.000 anni fa. Di fatto è un ramo del Sapiens incredibilmente evoluto, con una elevatissima intelligenza, che nasce già formato, con una propria civiltà che di fatto pare sorgere dal nulla. Non mancano le corrispondenze storico-mitologiche: all’epoca dell’origine del Sapiens, che secondo la mitologia sumerica fu originato dagli Anunna per lavorare nelle miniere, appartengono i resti di un’enorme città, in Sudafrica, vicino alle grandi miniere d’oro del paese africano. Una seconda umanità, poi – secondo la tradizione mitologica eleusina – sarebbe stata originata dai figli del titano Giapeto: Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo.

Disco volante

I testi eleusini (tradizionali, non storici) descrivono i Titani come i “creatori” dell’umanità di tipo mediterraneo, cioè occidentale, poi definita – secondo me impropriamente – caucasica. Secondo quei testi, questa nuova “creazione” sarebbe avvenuta attorno ai 35-40.000 anni fa: datazione che collima perfettamente con la nascita del Cro-Magnon, che alcuni testi identificano come “l’uomo di Atlantide”, civiltà sorta in Atlantide e da lì poi diramatasi nelle Americhe e in Europa, partendo dal Mediterraneo, inclusi quindi il Nordafrica e il Vicino Oriente. Quindi avremmo avuto due distinte “creazioni”: e chi ci dice che non siano state molte di più? In realtà, noi non conosciamo niente, del nostro passato. Secondo alcune interpretazioni, tutti i rami dell’attuale umanità oggi presenti sulla Terra sarebbero il frutto di varie interazioni (genetiche) operate da “attori terzi”, alieni, in epoche storiche anche diverse.

Il sequenziamento del genoma umano è stato compiuto solo negli anni ‘90. Il Dna è composto da due “eliche”, una delle quali è definita Dna-spazzatura: semplicemente, non ci dicono che cos’è. Secondo alcuni scienziati, conterrebbe la nostra effettiva memoria genetica. Io non ho competenze, al riguardo: certo, l’interpretazione è molto suggestiva. Il solo fatto che lo definiscano “spazzatura” perché non ne vogliono spiegare la funzione, be’, la dice lunga. Quindi, non meravigliamoci se certi temi sono sempre stati secretati: se già è difficile, per il potere costituito, ammettere l’esistenza di civiltà aliene dotate di tecnologie tali da permetter loro di scorrazzare nel nostro sistema solare, frequentando anche la Terra, potete immaginare quanto sia difficile riconoscere che l’attuale umanità sia frutto di diverse e molteplici ibridazioni genetiche con civiltà aliene. Questo sconvolgerebbe tutti i paradigmi della scienza, della storia, dell’archeologia. Non mi meraviglia, quindi, che certe questioni vengano affrontate esclusivamente tra addetti ai lavori, in congressi nei quali gli scienziati sono vincolati al silenzio.

Esiodo

In realtà, noi non sappiamo niente: non sappiamo da quanto tempo esista, l’umanità. Sappiamo solo quello che la paleontologia ammette. Ma Esiodo, ne “Le opere e i giorni”, ci dice che la nostra è la Quinta Umanità: ne sarebbero quindi esistite altre quattro. Umanità diverse dalla nostra, che in epoche precedenti avrebbero vissuto sul nostro pianeta con le loro civiltà e il loro ciclo evolutivo. Che siano esistite umanità diverse dalla nostra lo testimonia anche la scoperta di numerosissimi scheletri di giganti: affiorati in Sardegna, negli Usa, in Nordafrica, nel Medio Oriente. Giganti alti anche tre metri e mezzo: lasciano presumere l’esistenza di un ramo collaterale dell’umanità, oggi apparentemente scomparso. Era un ramo collaterale anche il Neanderthal: è stato ormai dimostrato che non c’è nessuna correlazione tra il Neanderthal, il Sapiens e il Cro-Magnon. Non c’è nessuna discendenza diretta. Fino agli anni ‘50 si ipotizzava che il Sapiens derivasse dal Neanderthal, e invece no: erano simili e vissuti contemporaneamente, ma in modo distinto. Probabilmente il Neanderthal non si è neppure estinto: è stato assimilato dal Sapiens e dal Cro-Magnon.

Volendo prendere Esiodo alla lettera, in un’epoca remotissima potrebbero essere esistiti altri cicli evolutivi, e le prove ci sono. All’interno di miniere di carbone, in strati geologici risalenti al Carbonifero (300 milioni di anni fa) sono stati scoperti manufatti di origine intelligente, tra cui una campana d’argento con misteriose decorazioni; e poi oggetti lavorati, utensili, un crogiolo per la fusione dei metalli, e addirittura una catena d’oro. Chi li ha realizzati? Non lo sappiamo. Di certo è stata una civiltà intelligente, attorno a 300 milioni di anni fa, quindi più antica di quella che sarebbe testimoniata dallo strato di carbonio e metalli pesanti che i geologi chiamano Limite Kt, risalente a 65 milioni di anni fa. Dunque: non sappiamo praticamente niente, del nostro vero passato. E questo ci autorizza a porci infinite domande. Tra queste, anche quella che rimbalza in questo periodo: avremo una vera e propria “disclosure”, sul ruolo alieno nelle nostre origini e sul potere che forze aliene esercitano al di sopra dei governi terrestri? Secondo me sì: e la stanno facendo gradualmente, a tappe controllate, perché ritengono che non sia più rimandabile.

Star Wars

Già da anni, soprattutto attraverso il cinema di Hollywood, stanno preparando l’opinione pubblica all’incontro con la realtà aliena. Bisogna vedere in quale direzione andrà, questa “disclosure”, perché non possono dire tutto: non potranno mai ammettere che l’umanità discende da svariate, differenti ibridazioni. Non potranno mai ammettere di averci preso in giro per millenni, di averci sottomessi con la piena complicità di civiltà aliene che hanno sempre fatto quello che hanno voluto, qui. Secondo me c’è un motivo, per il quale oggi si stanno decidendo a fare certe rivelazioni: probabilmente, dallo spazio, sta arrivando qualcosa di nuovo, di imprevisto. Qualcosa che potrebbe anche rappresentare una vera liberazione, per il genere umano: perché, se è vero che stanno tornando i nostri “creatori” (o almeno, i “creatori” di una buona parte dell’umanità), questo andrà a scompaginare tutto. E tra uno, due o tre anni, potrebbero addirittura ammettere di avere contatti con una civiltà aliena. Potrebbero anche fingere che questa civiltà sia appena arrivata, mentre magari è qui da millenni.

Così, potrebbero presentare questi alieni come dei benevoli benefattori del genere umano: potrebbero cioè dire che ci concedono tecnologia, risorse scientifiche e mediche, per poi dirci – dopo qualche mese – che in realtà sono venuti qui per metterci in guardia, perché un’altra civiltà, sempre proveniente dallo spazio profondo (una civiltà ostile, però) vorrebbe invadere la Terra, e quindi loro sarebbero qui per proteggerci. E chissà, potrebbero usare noi terrestri come carne da cannone, nello scontro con i nostri veri “creatori”, che magari sono in arrivo proprio per liberarci. Questo è uno scenario particolare, al quale mi piace pensare: lo ritengo plausibile. Alcuni dei “creatori” in arrivo potrebbero essere già qui, in una sorta di missione di intelligence, per capire che aria tira, sulla Terra. Non solo avrebbero sul terreno delle loro avanguardie, ma addirittura (già dalla fine degli anni ‘90, secondo certe fonti) sarebbe in atto una nuova guerra, nello spazio. Questa guerra sarebbe arrivata nel nostro sistema solare da diversi anni: dapprima nel sistema solare esterno, mentre oggi sarebbe arrivata a Marte. Quindi la guerra potrebbe avvicinarsi presto anche alla Terra: me lo riferiscono alcune fonti, che si dichiarano ben informate.

(Nicola Bizzi, dichiarazioni rilasciate nella trasmissione “Sdm Confini Esopolitiche“, luglio 2021, sul canale YouTube “Radioascolto live“. Editore di Aurora Boreale, appartenente alla tradizione misterica eleusina, Bizzi è tra le voci italiane che oggi si sforzano di interpretare la crisi che stiamo vivendo, mettendola in relazione con le conoscenze e le potenti suggestioni del passato più remoto).

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I Minoici in America: recensione di Salvatore Uroni

Ringraziamo lo scrittore Salvatore Uroni per questa sua splendida recensione:

«Ho letto il libro di Nicola Bizzi, I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta, Edizioni Aurora Boreale, e leggerlo è stata un’avventura affascinante. Alcune informazioni contenute nell’opera erano in mio possesso, ma la maggior parte delle conoscenze che Nicola Bizzi ha trasfuso nel libro mi hanno dato l’opportunità di imbarcarmi, come novello Giasone a bordo della nave Argo, in un viaggio alla scoperta di mari e terre dove Storia, Mitologia, evidenze storico monumentali e testimonianze scritte vengono riportate e raccontate, con dovizia di particolari e testimonianze incontestabili, per confutare una storiografia ufficiale ingessata e impermeabile a nuove scoperte che per valore e datazione spazio-temporale mettono in discussione paradigmi obsoleti, e direi oramai indifendibili di fronte a scoperte straordinarie, ben evidenziate nel libro, che raccontano un’altra storia sull’origine e sullo sviluppo della civiltà umana. I Minoici in America si colloca, senza ombra di dubbio, nel solco di quel grande risveglio che sempre più si sta manifestando in tutto il mondo in questa fase storica. Il libro di Nicola Bizzi contribuisce a questo grande risveglio e si fa strumento per abbattere muri di menzogne per riportare alla luce la verità sulla vera origine e sulla vera natura del genere umano. Consiglio fortemente di leggerlo».

Salvatore Uroni

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Sumeri, Fenici e Romani in America: la nostra vera storia

Articolo di Giorgio Cattaneo

https://www.libreidee.org/2021/05/sumeri-fenici-e-romani-in-america-la-nostra-vera-storia/

Chi siamo? Da dove veniamo? Dobbiamo imparare dai bambini: loro si chiedono sempre il perché di tutto. Io amo Platone, il suo metodo dialogico. Maieutica, in greco, significa ostetricia: farti nascere, stimolarti a trovare le risposte dentro di te. Nessuno di noi ha la verità in tasca, ma ognuno ha la capacità di arrivare a individuare una verità possibile. Il termine “verità” probabilmente è troppo grande, da usare. Però possiamo parlare di menzogna, questo sì. Da storico, ho sempre voluto indagare nei retroscena, della storia e della realtà che viviamo. E mi sono reso conto che tutto ciò che ci è stato insegnato è stato sempre finalizzato ad un solo obiettivo: il mantenimento dello status quo, il potere di chi comanda. Triste realtà: la storia la scrivono sempre i vincitori. I vinti, chiunque siano – i Troiani sconfitti dagli Achei, i Greci sconfitti dai Persiani, gli abitanti dell’Amazzonia sconfitti dalla deforestazione – non riescono mai a scriverla, la verità: vengono ridotti al silenzio. Sbagliatissimo: perché la ricostruzione del nostro passato riguarda tutti noi, sia i vincitori che i vinti, quelli che non hanno avuto la parola. E l’insegnamento della storia è sempre stato finalizzato a salvaguardare il potere di chi ha vinto.

Nicola Bizzi

Quante bugie ci hanno raccontato, a partire dalla preistoria? Come ci sono state raccontate, le origini dell’umanità? Quante mistificazioni sono state perpetrate? In materia di storia e archeologia, lo Smithsonian Institute è una delle principali istituzioni culturali degli Stati Uniti, dove gestisce decine di musei. Ebbene, di recente è stato condannato da un tribunale federale americano, dopo una serie di denunce, per aver deliberatamente distrutto – nel corso di svariati decenni – migliaia di reperti archeologici “scomodi”. Perché mai distruggere un reperto archeologico? Perché tutto quello che va a infrangere il paradigma dominante è tabù: è vietato. Quest’anno c’è stata una censura terribile, su Internet, che continua tuttora. Ora, abbiamo a che fare con una situazione particolare: e chi mi conosce sa bene che, da un anno, sto combattendo una battaglia per la verità. Perché ci stanno raccontando parecchie bugie, su tanti fronti. Bugie sempre finalizzate al potere, al controllo, al dominio sulle masse. E la censura, purtroppo, fa parte di questo gioco: come nei tempi antichi, e poi nel medioevo e oltre.

Giordano Bruno

Fino al Sei-Settecento è rimasta il vigore la cosiddetta Santa Inquisizione: se personaggi come Galileo se la sono cavata abiurando, altri – come Giordano Bruno – hanno pagato con la vita il loro impegno a sostenere delle verità che il potere pretendeva di negare, di nascondere. E’ bene studiare, quindi, la vera origine e il reale percorso delle grandi civiltà. Ma soprattutto, è importante capire perché ci hanno imposto dei dogmi. Come mai la storia è piena di dogmi? Vengono chiamati “paradigmi”, ma in realtà sono veri e propri dogmi di fede. Io mi sono poi laureato in storia, ma la mia grande passione è sempre stata l’archeologia. Eppure faticavo: già ai tempi dell’università io ragionavo con la mia testa, e mi scontravo con i docenti. Mi dicevano: guarda che queste cose non le puoi dire. Non mi hanno mai detto: le tue osservazioni sono sbagliate. Macché: implicitamente mi davano ragione; ma mi spiegavano che certe cose non le potevo dire, perché infrangevano il famoso paradigma. Si deve sempre diffidare di chi pretende di essere un dispensatore di verità, da accettare come dogmi di fede.

Si deve poter parlare di tutto: anche di Atlantide, e di altri continenti perduti. Perché mai, specie nella nostra civiltà occidentale, ci è sempre stato negato di conoscere un certo passato? Ho partecipato sul campo a tanti scavi archeologici (in Turchia, in Iran, in vari altri paesi) e conosco bene l’ambiente dell’archeologia. In effetti, tutto quello che non è coerente con i paradigmi vigenti, viene deliberatamente nascosto. Ci sono migliaia di reperti “scomodi” che sono stati distrutti. Ci sono siti “scomodi” che sono stati ricoperti e nascosti, addirittura vietandone l’accesso. E ci sono migliaia di reperti archeologici che vengono tuttora nascosti negli scantinati dei musei. E c’è un perché: danno fastidio. Potrebbero portare le persone a riflettere su altre sfaccettature della verità. Attraverso le civiltà antiche, ad esempio, si può arrivare a capire come si sono imposte le grandi religioni monoteistiche. Non voglio urtare la suscettibilità di nessuno, il mio atteggiamento è di grande rispetto; faccio però notare che Ebraismo, Cristianesimo e Islam hanno un comportamento dogmatico, esclusivistico.

Cavallo di Troia

Io parlo di tutto: anche di come un’antica civiltà, di impronta matriarcale (presente in Europa fino alla tarda Età del Bronzo), sia stata poi soppiantata da una nuova cultura, di tipo patriarcale, che ha stravolto completamente gli antichi schemi della società. Anche questo viene generalmente omesso, dalla storiografia: viene taciuto, perché “scomodo”. Ancora oggi, infatti, ci troviamo in una società patriarcale, e quindi è diventato scomodo (quasi eretico) parlare di quello che c’era prima, e spiegare perché l’antica società matriarcale sia stata sostituita con il modello patriarcale. La Guerra di Troia è stata una delle vicende più epocali della storia antica. Molti pensano che sia stata semplicemente una guerra commerciale, per il controllo del traffico marittimo tra l’Egeo e il Mar Nero. Niente di più falso: quella fu una guerra di religione, e di cultura. Fu veramente l’apice dello scontro fra matriarcato e patriarcato. La civiltà troiana era fondata sul matriarcato e sul culto delle antiche divinità, gli dèi Titani, mentre gli avversari incarnavano una società patriarcale e bellicosa. Gli Achei si scontrarono con Troia per eliminare una cultura avversa.

Il paradigma dominante deforma la storiografia anche riguardo al lungo arco del medioevo, a partire da quelle che sono state considerate eresie. Come mai il Cristianesimo ha considerato eretiche tante altre dottrine? Come mai è stata perseguitata quella che è stata chiamata stregoneria? Alludo a decine di migliaia di donne: non praticavano magia, non celebravano oscuri rituali; semplicemente, praticavano ancora un rapporto simbiotico con le forze della natura (come già le loro antenate, per millenni). Conoscevano le proprietà curative delle erbe, secondo una tradizione millenaria: perché sono state torturate e condannate al rogo come streghe? Bisogna riflettere, su tutti questi sconvolgenti aspetti del nostro passato: perché purtroppo non riusciremmo mai a comprenderlo a fondo, il presente che viviamo, e nemmeno il futuro che ci attende, se non conosciamo davvero il nostro passato, cioè tutti gli errori che abbiamo commesso, e soprattutto tutti gli inganni che ci hanno propinato.

Comalcalco

Vogliamo parlare di quella che è considerata la scoperta dell’America? Il mio ultimo libro si intitola “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”. A scuola ci hanno insegnato che l’America è stata scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492. Una data simbolica, con la quale si vuole chiudere il medioevo e far iniziare l’età moderna. Ma poi, prove alla mano (dati archeologici), ci accorgiamo che in America ci sono andati tutti, prima di Colombo. Nel Gran Canyon del Colorado hanno trovato addirittura delle tombe egizie. Ovunque, in Brasile, le rocce sono piene di incisioni in lingua fenicia. Un manoscritto custodito nella biblioteca di Rio de Janeiro documenta il ritrovamento di un’antica città greca. Se andiamo in Messico, nel sito di Comalcalco (nella regione del Chiapas), sembra di essere a Ostia antica: è l’unica città dell’area Maya non edificata con pietre, ma con mattoni, secondo le tecniche edilizie romane. Mattoni con impressi i marchi dei fabbricanti, come usavano i costruttori romani (ci sono pure i loro nomi, infatti).

Sempre in Messico sono state trovate delle teste di terracotta prettamente romane. Monete romane sono state trovate ovunque, nel territorio americano. Addirittura, un capo indiano dell’importante tribù dei Nasi Forati, sconfitto nel 1878 dal neonato esercito degli Stati Uniti, prima di essere costretto a trasferirsi in una riserva insieme al suo popolo, volle donare un omaggio al generale che l’aveva battuto sul campo: era il ciondolo che portava al collo, con – incastonata – una tavoletta in terracotta di origine sumera, scritta in caratteri cuneiformi. La sua tribù se l’era tramandata, di generazione in generazione, da millenni. Questa tavoletta – oggi esposta in un museo, in America – è stata tradotta. E’ una banalissima tavoletta d’archivio, che contiene una transazione commerciale: è la ricevuta d’acquisto di alcune capre, comprate per compiere un sacrificio propiziatorio alla vigilia di un lungo viaggio. Quindi, qualcuno – in Mesopotamia – ha comprato delle capre e le ha sacrificate, forse per propiziare la fortuna in vista del lungo viaggio che stava per intraprendere; ma questo viaggio l’ha portato dall’altra parte dell’Oceano, insieme alla ricevuta d’acquisto delle capre: quella tavoletta è finita in America.

Le incisioni fenicie di João Pessoa in Brasile

In Bolivia, negli anni ‘80, è stato scoperto un grande vaso rituale in pietra, per libagioni e offerte votive, che al proprio interno ha iscrizioni in sumero: cuneiforme sumerico, come quello della tavoletta del navigatore. Gli esempi analoghi sono centinaia. In Canada, ad esempio, è pieno di iscrizioni celtiche. Poi sappiamo – perché è documentato – di una flotta salpata da Portovenere, vicino a La Spezia, nel 1442: una flotta di navi fiorentine, comandata da Amerigo Vespucci (non quello che conosciamo: era suo nonno, e anche lui si chiamava Amerigo). Il 4 luglio di quell’anno, questa flotta arrivò all’estuario del fiume San Lorenzo, sulla costa atlantica del Canada, cinquant’anni prima del viaggio di Colombo. Di queste cose non troverete notizia, nei libri di storia, perché l’America era uno dei massimi segreti di Stato della famiglia  Medici, che a Firenze iniziarono a importare l’oro americano: erano bravi banchieri, sapevano il fatto loro. Io ho trovato le prove di quel viaggio, e anche i nomi delle navi (che erano sette) e dei loro comandanti. La data di arrivo è stata tramandata, dai padri costituenti degli Stati Uniti: la festività del 4 Luglio non l’hanno creata a caso, ma in ricordo dell’arrivo delle navi fiorentine in America.

(Nicola Bizzi, dichiarazioni rilasciate nella video-conferenza “Ripensare la storia”, su YouTube il 1° aprile 2021, a cura della Libera Università di Nuova Pedagogia, presso cui lo stesso Bizzi, storico e editore di Aurora Boreale, terrà un corso on line di storia “divergente”, dal titolo “Ripensare la storia: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”. Un ciclo di 15 incontri per riflettere e per comprendere le nostre origini e il nostro ruolo su questo pianeta, immaginando anche il futuro che ci attende. Per informazioni sulle modalità di partecipazione al corso, basta inviare un’mail a: nuovapedagogia@gmail.com).

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Nicola Bizzi: guerra invisibile, ingabbiano la nostra anima

Articolo di Giorgio Cattaneo

https://www.libreidee.org/2021/05/bizzi-cosa-ce-dietro-al-covid-vogliono-la-nostra-anima/

Io ho deciso di combattere questa battaglia per la verità e per la giustizia, che mi tiene impegnato notte e giorno. Da massone, e soprattutto da iniziato eleusino quale sono, dico che questa è anche una battaglia per la spiritualità. Veramente, ritengo che oggi siano in campo forze non umane, veramente pericolose: questo è uno dei momenti più bui della storia del genere umano. Le porte dell’inferno si stanno davvero spalancando: e dentro ci finiranno proprio tante persone. Molti ritengono di aver acquisito determinati livelli di consapevolezza, e poi invece vanno a sottoporsi a certe terapie geniche: mi domando che cosa abbiano praticato, finora. Ne parlo anche con “fratelli” come me, anche loro sconcertati dal comportamento di persone con cui abbiamo a che fare, persone che sostengono questa narrazione e, addirittura, si sottopongono volontariamente a certe terapie, che distruggono l’anima. Qui vogliono veramente ingabbiare le nostre anime.

Rudolf Steiner

Devo proprio dare ragione a Rudolf Steiner, perché aveva capito dove sarebbe andata a parare, questa situazione. L’obiettivo in questo caso non sono i soldi. Questa operazione è partita ufficialmente per motivazioni economiche, e lo sappiamo: il motore economico è stato la spinta per determinare questa operazione. Ma questi sono personaggi che, il denaro, lo creano dal nulla: quello che vogliono veramente è il potere di controllo sulle nostre anime. Da parte di certe élite di potere, che hanno ben poco di umano (e che sicuramente non sono umane), c’è anche la volontà di imprigionare l’umanità in una gabbia “quantica”. Vogliono portare l’intelligenza artificiale a dei livelli tali, da creare qualcosa che è stato già creato, in passato. In un passato molto remoto, queste cose le hanno già fatte. Ve lo posso dire con cognizione di causa: esistono delle dimensioni parallele, che sono reali e fisiche.

Intendo dimensioni parallele – create in un passato remoto da intelligenze artificiali, non umane – dove hanno ingabbiato per millenni le anime: e continuano a farlo. Ma chi detiene adesso le chiavi del potere non ha le chiavi di accesso a queste dimensioni. Però sono arrivati al punto da poterne creare, a loro volta: e questa sarebbe veramente la tomba dell’umanità. Perché questi non solo vogliono “depopolare” il pianeta, riducendo l’umanità di qualche miliardo di persone, ma vogliono anche precludere – a quelli che avranno “depopolato” – la possibilità di tornare. Ripeto: vogliono ingabbiare le anime. Quindi è arrivato il momento di prendere coscienza, di dare finalmente una spallata definitiva a questa farsa.

Bizzi

Da mesi, vi stiamo invitando a ragionare con la vostra testa, spingendovi a cercare di capire quello che c’è oltre la narrazione. Questa è la battaglia decisiva: l’ultima. Il vento della libertà non soffia da solo: lo dobbiamo alimentare noi, con le nostre azioni. E nemmeno il vento della consapevolezza soffia da solo. Quindi, chi è in grado di prendere consapevolezza dia una spallata definitiva a questa farsa, che in buona parte sta già implodendo da sola, probabilmente, perché non riescono più a portarla avanti. Ma ci sono delle forze, in campo – non umane – che stanno facendo di tutto, per tenerla in piedi.

Circola una foto sconcertante di Klaus Schwab (seminudo su una spiaggia, dove si esibisce in indumenti intimi femminili, ndr) che potremmo definire tranquillamente Mister Covid: è il deus ex machina dell’Operazione Corona, del Forum di Davos, colui che pretende di gestire il futuro della Quarta Rivoluzione Industriale, del Grande Reset. Quando vedete in televisione personaggi come Speranza, come Mattarella (che pontifica, da dietro quella sua ipocrita “museruola” che indossa in pubblico), o quando vedete personaggi come Conte, adesso anche Mario Draghi (e il generale Figliuolo), non dimenticate che stanno tutti sostenendo un’operazione che è partita da gente come lo Schwab che possiamo ammirare in quella fotografia scattata in spiaggia.

Ora, non voglio stare a criticare il suo abbigliamento e i suoi gusti: tra le mura domestiche, ognuno fa quello che vuole. Ma un personaggio del genere, che va su una spiaggia in quel modo, e poi pretende di dettare le linee-guida di come dev’essere il futuro dell’umanità, parla da solo. Quando vedete in televisione certi politicanti e certi personaggi che sponsorizzano le terapie geniche, cercate di pensare a Klaus Schwab conciato in quel mondo, sulla spiaggia, e vedrete che vi passerà la voglia, di sottoporvi a certe terapie. Insisto: ribellatevi, resistete. Perché questa è veramente l’ultima battaglia: adesso basta, perché questi personaggi non la devono passare liscia. Dovranno pagare: fisicamente, materialmente e anche spiritualmente.

(Nicola Bizzi, dichiarazioni rilasciate il 20 maggio 2021 nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi” sul canale YouTube di “Border Nights”, con Tom Bosco, Matt Martini e la partecipazione straordinaria di Bhante Dhammasila, monaco buddista della tradizione Theravada. Storico e saggista, editore di Aurora Boreale, Bizzi è co-autore – con Martini e altri – dell’instant-book “Operazione Corona”. Nel passaggio in cui cita l’origine economica dell’emergenza pandemica, Bizzi allude alla crisi dei Repo, le compensazioni interbancarie, che a fine 2019 avrebbe reso “necessario” pensare di fermare l’economia mondiale con i lockdown, nel 2020, al fine di determinare il crollo momentaneo degli investimenti, viste le insufficienti coperture finanziarie disponibili, in quel momento).

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I Minoici in America: come occultare Atlantide e i Titani

Articolo di Giorgio Cattaneo

https://www.libreidee.org/2021/06/i-minoici-in-america-come-occultare-atlantide-e-i-titani/

E se tutto questo improvviso agitarsi attorno all’ultimo tabù, quello degli Ufo, nascondesse anche la paura per qualcosa che potrebbe accadere nel 2024, con l’ingresso di Plutone in Acquario, che per gli astrologi significa “rivoluzione”, cambio di passo epocale per il pianeta? Non è che i protagonisti dell’attuale ultimo show, la cosiddetta “disclosure aliena” (perfetta per archiviare l’altro spettacolo planetario, quello del Covid) hanno il fondato timore che, esattamente fra tre anni, lo spazio possa riservare sorprese indesiderabili, per gli odierni dominatori della Terra? Ragionando ad alta voce a “L’Orizzonte degli Eventi“, sul canale YouTube di “Border Nights”, Nicola Bizzi la butta lì: c’è chi pensa sia possibile che, proprio nel 2024, tornino dalle nostre parti quelli che la tradizione mitologica ha chiamato Titani. Ovvero: “divinità” che sarebbero approdate 90.000 anni fa alle nostre latitudini, provenienti dal sistema solare di Tau-Ceti.

Statua marittima di Poseidone alle Canarie

Ne parla Esiodo nella Titanomachia racchiusa nella Teogonia: i Titani sarebbero stati sfrattati 20.000 anni fa dopo aver perso una “grande guerra cosmica” con altre entità, che poi si sarebbero fatte conoscere come dèi olimpici nell’Ellade, e con nomi diversi in altri continenti. E perché mai sarebbero così importanti, i Titani come Prometeo, Atlante e Poseidone? Perché sarebbero stati i nostri “padri”, nientemeno: i discendenti di Giapeto ci avrebbero “fabbricati” geneticamente 80.000 anni fa, dando origine all’Uomo di Cro-Magnon, nei territori – non ancora sommersi e non ancora frazionati in arcipelago – del più mitico dei continenti scomparsi: Atlantide. Un’area vastissima, probabilmente estesa dalle Azzorre alle Svalbard, con le sue propaggini orientali non distanti da Gibilterra. Era comodo, il “continente perduto”, per raggiungere sia l’America che il Mediterraneo.

Bene, e chi lo dice? Chi la racconta, questa storia? Platone, innanzitutto: nel Crizia, soprattutto nel Timeo e poi forse anche nell’Ermocrate, altro dialogo del sommo filosofo greco (andato smarrito o addirittura mai scritto, solo pensato). Però l’esistenza di Atlantide la davano per scontata anche autori come Tucidide e Tertulliano, Diodoro Siculo, Strabone, Plinio il Vecchio, Seneca: per loro era storia, non leggenda. Lo ricorda lo stesso Bizzi, nel monumentale saggio “I Minoici in America”, che ripercorre “le memorie di una civiltà perduta”. Dettaglio: anche tramite Solone, suo avo, Platone attinge le sue informazioni dall’Egitto, dove i sacerdoti avrebbero conservato il ricordo ancestrale dei primissimi colonizzatori venuti dal mare: la Stirpe del Leone, che avrebbe disseminato le rive del Nilo di piramidi e sfingi dalla testa leonina.

Labrys

Se l’origine “titanica” dell’umanità occidentale è una radicata convinzione della tradizione misterica eleusina, non suffragata però da documenti originali e fonti dell’epoca, Nicola Bizzi – con lo sguardo dello storico, monitorando attentamente l’archeologia – dimostra il clamoroso oscuramento, più che sospetto, della maggiore civiltà mediterranea che gli eleusini considerano di origine “atlantidea”: l’Impero Minoico di Creta. La tesi esposta: i “popoli del mare” risalenti a quel tempo (lelegi, pelasgi, egei e, infine, cretesi e troiani) restano “scomodi”, da studiare; si tende a sminuirne il ruolo, proprio per non dover approfondire la loro provenienza. Da dove venivano, le genti che seppero erigere i palazzi di Festo e Cnosso millenni prima dell’età greca?

Erano provetti navigatori, presenti in Egitto ben prima dei faraoni. Guerrieri, mercanti, formidabili architetti. Una civiltà stranamente avanzata, in possesso di una lingua come il Lineare A. La progenie dei Minosse si era espansa in tutto il Mare Nostrum, fino all’Anatolia e al Mar Nero, anche se si stenta sempre a evidenziare le sue tracce. Mezza Europa, poi – dalla Sardegna alle Isole Britanniche – mostra i segni di una cultura affine, megalitica, che “specchia il cielo con le pietre” riproducendo costellazioni, esattamente come poi faranno le culture precolombiane dell’America centro-meridionale. C’era un mondo molto più vasto, nel 3000 avanti Cristo, di quello che la storiografia ufficiale (sempre più spiazzata dai ritrovamenti recenti, come quello di Göbekli Tepe in Turchia) sia tuttora disposta a riconoscere? C’era stato un Grande Prima, che poi è stato meticolosamente occultato fino ai nostri giorni?

Atlantide ricostruzione cartografica

Purtroppo, premette Bizzi, l’archeologia resta ingessata nelle sue ataviche pigrizie: continua a non ammettere (con un atteggiamento ben poco scientifico) la necessità di incrociare i propri dati con quelli di altre discipline. Per esempio: solo nel 2014, i geofisici hanno finito di capire che la Terra è stata terremotata da un doppio schianto apocalittico, di origine cometaria: la prima onda d’urto nel 10800, la seconda nel 9600 avanti Cristo. Il che – annota lo storico – corrisponde con la datazione (tradizionale, eleusina) dell’inabissamento di Atlantide. Una sorta di spaventoso Grande Reset, dal quale quella civiltà sarebbe poi risorta – dopo il “diluvio” – arrivando a rifiorire nel Mediterraneo fino all’altro cataclisma, l’esplosione del vulcano Santorini (attorno al 1600) che decretò il declino irreversibile dei Minoici, la cui ultima battaglia – la Guerra di Troia, che Omero narra nell’Iliade – verso il 1250 avrebbe messo fine all’ultimo capitolo dei popoli di origine “titanica”, non indoeuropea.

In realtà, alle fonti eleusine è dedicato solo l’ultimo capitolo de “I Minoici in America”, in cui Bizzi esibisce inediti documenti custoditi dai discendenti italiani di quella corrente culturale, che si vuole originata dall’apparizione a Eleusi (alle porte di Atene) della dea Demetra: nel 1216, caduta Troia, la dea avrebbe rivelato alla comunità eleusina (di origine minoica) la sua vera storia, preannunciando un lunghissimo esilio, le persecuzioni in arrivo (puntualmente verificatesi, da Teodosio in poi) e infine un ritorno, da parte delle divinità “titaniche”. Chi è appassionato ai risvolti meta-storici, spesso classificati come mitologici, noterà certe ricorrenti ridondanze: per gli eleusini, Demetra veniva da Enna, in Sicilia, mentre Virgilio (nell’Eneide) affiderà al troiano Enea il ruolo di fondatore di Roma. La radice “En”, avverte Bizzi, significa “inizio”. E proprio En’n era il nome dell’isola maggiore del leggendario arcipelago perduto nell’Atlantico.

I Minoici in America

Loro, gli Ennosigei, avrebbero egemonizzato le Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente: da un loro geroglifico (”Hath-Lan-Thiv-Jhea”) il nome Atlantide, che in antico suonerebbe “la Grande Madre venuta dal mare”, a sottolineare l’impostazione matriarcale delle origini. Per gli Eleusini, dice Bizzi, non è un caso che – sconfitti i Titani – le nuove divinità “usurpatrici” abbiano imposto culti dogmatici e schemi sociali basati sul potere patriarcale. Sempre secondo l’autore, il corpus sapienziale eleusino (il Tesoro del Tempio e gli Hierà) riuscì a sopravvivere in clandestinità grazie a Nestorio il Grande, leggendario Pritan degli Hierofanti eleusini, che lo fece sparire prima che a Eleusi facessero irruzione i Goti di Alarico, inviati dai vescovi cristiani: volevano mettere le mani su tutti quei rotoli. Come se il culto “titanico” dovesse sparire dalla scena, per cancellare la memoria dell’imbarazzante origine atlantica? Operazione riuscita solo a metà, se è vero che l’ombra di Eleusi – mille anni dopo – riuscì ad allungarsi sul Rinascimento italiano, ispirando svariate signorie a cominciare da quella medicea.

Va però precisato che “I Minoici in America” non è un libro a tesi: attraverso 600 pagine di trattazione documentata, densa di citazioni puntualissime e corroborata da una bibliografia scientifica imponente, Nicola Bizzi si concentra soprattutto sugli studi dei ricercatori di oggi, pronti a denunciare le falle più vistose dell’archeologia ufficiale. Si mettono così a nudo le lacune e le contraddizioni di una narrazione che sembra voler parlare il meno possibile di Creta e dei suoi regnanti, delle loro fondamentali conquiste agevolate dalle superiori conoscenze di cui erano in possesso. Una su tutte – quella metallurgica – avrebbe permesso al Mediterraneo di entrare nell’Età del Bronzo, attingendo di colpo a un’enorme quantità di rame, ben superiore a quella disponibile a Cipro.

Isle Royale Michigan

«E’ stato stimato che oltre un milione di tonnellate di rame sia stato estratto, da ignoti minatori e per un periodo continuativo di circa mille anni, in migliaia di pozzi e gallerie sull’Isle Royale e sulla penisola Keweemaw, nello Stato americano del Michigan, nella zona dei Grandi Laghi al confine con il Canada». Lo si legge nell’incipit del capitolo “Le miniere minoiche del Michigan”: la datazione al radiocarbonio dei resti delle travi di legno utilizzate nelle gallerie risale fino al 3700 avanti Cristo. Secondo punto: per l’odierna mineralogia, che consente di determinare il “Dna” dei metalli e dunque la loro provenienza, il rame di Creta corrisponde esattamente a quello del Michigan. Terzo punto: come si naviga (a vela e a remi) dall’Egeo al Lago Superiore? Lo spiegano benissimo i tanti navigatori, antichi e poi medievali, che dall’America andavano e venivano tramandandosi rotte segrete e gelosamente custodite, dai tempi dei fenici e, prima ancora, dell’Impero dei Minosse.

Dopo “Da Eleusi a Firenze” (e in attesa del sequel “Da Eleusi a Washington”), chi apprezza le indagini di Bizzi non potrà che trovare appagante l’immersione tra le pagine di quest’ultimo prezioso lavoro, capace di incrociare dati ufficiali, riscontri mitologici e testimonianze archeologiche “scomode”, lungo una narrazione sempre avvincente e scorrevole malgrado l’abbondanza di note, citazioni e riferimenti bibliografici estremamente accurati,  classici e contemporanei. L’impressione è quella di percorrere una storia parallela, i cui punti cardinali coincidono con quelli convenzionali, facendogli però cambiare segno: come se davvero una specie di grande segreto proteggesse scoperte scoraggiate in ogni modo, dalle navi minoiche cariche di lingotti, rinvenute nei nostri fondali, alle città (greche) localizzate nella selva amazzonica da esploratori coraggiosi, poi spariti nel nulla. Non c’è bisogno di fantasticare sugli eventuali Ufo “titanici” del 2024, per interrogarsi sulla domanda di fondo a cui Bizzi prova a rispondere: perché tanto accanimento, nel secolare “cover up” archeologico sui Minoici?

(Il libro: Nicola Bizzi, “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta“, Edizioni Aurora Boreale, 616 pagine, 30 euro).

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Atlantide e altre pagine di storia proibita – La prefazione di Boris Yousef

Quando Nicola Bizzi mi ha proposto di realizzare una prefazione al suo ultimo saggio Atlantide e altre pagine di storia proibita, ho accettato subito e senza alcuna riserva, perché, conoscendo piuttosto bene l’Autore, la sua preparazione e il suo stile di scrittura – estremamente dotto ed erudito ma al contempo anche colloquiale ed esplicativo, già dal titolo avevo immaginato che si trattasse di un buon prodotto. E, una volta che mi sono cimentato nella sua lettura, non solo non ne sono rimasto deluso, ma devo confidarvi che mi sono ritrovato davanti ad un libro che, per prospettiva e profondità dei contenuti, travalicava di molto le mie seppur ottimistiche aspettative.

Atlantide e altre pagine di storia proibita di Nicola Bizzi non è un semplice saggio sui misteri del passato e sulle antiche civiltà scomparse come molti se ne possono trovare oggi nelle librerie. È un vero e proprio viaggio iniziatico, supportato dal rigore storico e dalla competenza del suo Autore, uno storico e scrittore che ha dedicato la propria vita alla ricerca delle più autentiche radici della civiltà umana sulla Terra e alla riscoperta della Tradizione Occidentale. Questo suo ultimo imponente lavoro può essere definito senza esitazioni un condensato di oltre venti saggi diversi, in cui il lettore viene trasportato e al contempo guidato per mano attraverso le barriere del tempo e dello spazio, dalla mitica Atlantide agli splendori e ai misteri della civiltà Minoica cretese, dall’Egitto dei Faraoni al Telestérion di Eleusi, fino ad arrivare a Ipazia di Alessandria, ai segreti della Teogonia di Esiodo e dell’Oracolo di Delfi e al mistero dei Templari. Un libro che nasce da una serie di riflessioni su grandi temi irrisolti della Storia, dell’Archeologia, della Mitologia e della sfera del sacro degli antichi popoli; temi ed argomenti che Nicola Bizzi, come ha specificato nella sua introduzione, ha avuto modo di affrontare nel corso degli ultimi anni in convegni e conferenze e su varie riviste, da Aesyr a Novum Imperium, da Archeomiste-ri a Satormagazine.

Conosco l’Autore fin dai primi anni ’90. All’epoca mi trovavo a Roma per seguire un master di specializzazione in Antropologia Culturale e ricordo che Nicola Bizzi mi contattò attraverso un comune amico dopo aver letto alcuni miei articoli di argomento archeologico concernenti la civiltà Minoica cretese. Rimasi piacevolmente sorpreso dall’apprendere, già nel corso delle nostre prime telefonate, che non solo era esponente di un centro culturale improntato sullo studio della Tradizione Misterica Eleusina, ma che a tale Tradizione egli inoltre apparteneva, sia per percorso iniziatico che per trasmissione familiare. Nicola Bizzi, infatti, oltre ad essere uno stimato storico, uno scrittore, un editore e un organizzatore di eventi culturali, è soprattutto un grande Iniziato. Non fa certo mistero della sua appartenenza alla Massoneria e all’Ordine degli Eleusini Madre, una delle realtà iniziatiche più antiche, chiuse e misteriose, un’importante realtà iniziatica che è fra le poche ad essere sopravvissute dalla tarda antichità fino ad oggi, attraversando indenne la triste stagione delle persecuzioni cristiane nei confronti di tutti gli altri culti, un forzoso ma necessario ingresso nella clandestinità e i secoli bui del Medio Evo. Una realtà iniziatica che, attraverso l’operato di suoi importanti e celebri esponenti, ha dato vita all’Umanesimo e al Rinascimento; una realtà iniziatica che si pone alla base della stessa Tradizione Occidentale, e che solo da pochi anni, per decisione del 73° Pritan degli Hierofanti Guido Maria St. Mariani di Costa Sancti Severi, persona che conosco e che profondamente stimo, ha deciso di intraprendere una politica di graduale apertura nei confronti del mondo profano.

Da oltre vent’anni, quindi, conosco l’Autore di questo libro e ho avuto modo di apprezzare la sua competenza, collaborando con lui in più occasioni e in vari progetti culturali ed editoriali.

Nicola Bizzi sa quindi di cosa parla quando introduce i lettori nel mondo degli antichi Misteri, e quando ci narra del martirio di Ipazia di Alessandria e di Galeria Valeria, due donne straordinarie, due Iniziate di cui è stata tentata addirittura la cancellazione della memoria storica. E sa di cosa parla quando ci spiega i misteri ed i segreti della Teogonia di Esiodo e la realtà storica della Titanomachia, e quando afferma categoricamente che non sono mai esistite, se non nei sogni degli sciocchi o dei contro-iniziati, né una fantomatica “Unica Tradizione Primordiale” né tantomeno una presunta unità trascendente di tutte le religioni.

In suoi precedenti saggi ed articoli, Nicola Bizzi ha sostenuto che la comune visione che abbiamo oggi della mitologia greca e romana è profondamene errata e in questo suo nuovo libro ci spiega quanto tale visione sia necessariamente da riscrivere e da reinterpretare se vogliamo comprendere le più autentiche radici della Tradizione e del Mito. E ci spiega con grande naturalezza come, prima di quella attuale, siano esistite sulla Terra altre precedenti umanità che ci hanno lasciato innumerevoli resti e testimonianze che l’Archeologia, aggrappata ai suoi obsoleti preconcetti e alle sue paure, si ostina a ignorare o a negare. E, parlando di Atlantide, non gira intorno all’argomento, ingolfando le pagine di “se” e di “ma” o di sterili e inutili ipotesi e congetture, come sono soliti fare molti altri scrittori privi di argomenti. Lui viene subito al punto, sbattendo letteralmente in faccia all’intero establishment accademico, ingessato nei suoi falsi stereotipi e nei suoi traballanti paradigmi, che non solo esistono ormai da decenni le prove documentarie che prima del X° millennio a.C. siano esistite non una ma varie civiltà avanzate e progredite, ma che addirittura da pochi anni è stata finalmente trovata dagli scienziati la “pistola fumante”, ovverosia la prova oggettiva del tracollo e della repentina scomparsa di tali civiltà: i due impatti cometari del Dryas Recente.

Nicola Bizzi non si dimostra tenero neppure con quella schiera di sedicenti storici e ricercatori che pretenderebbero di identificare l’Atlantide descrittaci da Platone con la Creta minoica, basandosi sul fatto che fu l’eruzione di Santorini che, attorno al 1600 a.C. pose drammaticamente fine a tale civiltà e ipotizzando goffamente che il grande Filosofo e Iniziato ateniese potesse essersi sbagliato, indicando la fine di Atlantide novemila anni prima della sua era anziché novecento! Rigettando con fermezza simili scempiaggini, egli ci dimostra come la Tradizione Misterica Eleusina abbia tramandato alcuni testi segreti che non solo confermano cronologicamente la versione di Platone, ma che ci narrano con dovizia di particolari la storia di una grandiosa civiltà sorta nell’Atlantico settentrionale, su quelle che vengono definite come le “Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente”; una civiltà che al suo apice di espansione conquistò e colonizzò l’America centrale e meridionale, il bacino mediterraneo, l’Europa meridionale e buona parte del Nord Africa e del Vicino Oriente, lasciando ovunque in quelle terre testimonianza di sé. Una civiltà che scomparse drammaticamente attorno al 9600 a.C., una data che non solo corrisponde a quella indicataci da Platone ma che è anche la stessa del secondo grande impatto cometario che devastò l’intero pianeta facendolo ripiombare nella preistoria, ponendo fine alla piccola era glaciale del Dryas Recente e determinando in tutto il mondo un repentino innalzamento del livello dei mari. O, se preferite, un “Diluvio”, quel grande Diluvio di cui troviamo menzione in tutte le tradizioni mitologiche e religiose della Terra.

La civiltà Minoica di Creta non sarebbe quindi stata “Atlantide”, ma soltanto una delle colonie di tale civiltà nel contesto del Mediterraneo.

Per non parlare, poi, delle straordinarie conferme che i testi misterici della Tradizione Eleusina forniscono a determinate oscure ed intricate realtà che troviamo solo parzialmente esposte in saggi come L’altra Europa di Paolo Rumor!

La Storia che ci racconta Nicola Bizzi è quindi realmente una Storia “proibita”, perché per troppo tempo i Controllori della Matrix hanno deciso che tale dovesse essere, impedendo al genere umano di accedervi, di conoscerla. Ma non vi anticipo altro, lasciandovi alla lettura di un libro che senz’altro non vi lascerà indifferenti. Un libro che probabilmente avrà il potere di risvegliare le vostre coscienze.

Boris Yousef

Belgrado, Maggio 2018.

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LA DAMNATIO MEMORIAE DI IPAZIA DI ALESSANDRIA E IL MISTERO DEL TRANSFERT CON S. CATERINA

La damnatio memoriae è notoriamente una locuzione che, nella lingua latina, significa letteralmente “condanna della memoria”. Nel Diritto Romano indicava, infatti, una pena consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia che potesse tramandarla ai posteri, come se essa non fosse mai esistita. Si trattava di una pena particolarmente aspra riservata in genere agli hostes, ossia ai nemici di Roma, del Senato o dell’Impero; nemici reali o presunti, o divenuti tali in seguito ai loro crimini o, molto più comunemente, dopo essere caduti in disgrazia presso i detentori del potere.

Nell’Urbe, in età repubblicana, tale sanzione – generalmente applicata dal Senato – faceva parte delle pene che potevano essere inflitte a una maiestas e prevedeva la abolitio nominis: il praenomen del condannato non si sarebbe tramandato in seno alla famiglia e sarebbe stato cancellato da tutte le iscrizioni. Inoltre si distruggevano tutte le eventuali raffigurazioni (pittore, scultoree e via dicendo) che lo riguardavano. In certi casi, previo voto positivo del Senato, la damnatio memoriae poteva essere seguita dalla rescissio actorum (annullamento degli atti), ossia dalla completa distruzione di tutte le opere realizzate dal condannato nell’esercizio della propria carica, opere divenute “scomode” proprio in conseguenza della condanna del soggetto, e perciò destinate alla distruzione affinché la loro lettura o diffusione non fosse per il popolo causa di cattivi insegnamenti. E se tale atto avveniva in vita, come in taluni casi è attestato dalle fonti storiche, allora – dal punto di vista giuridico – esso rappresentava una vera e propria morte civile.

In età imperiale l’uso di tale pratica sanzionatoria non conobbe freni  e toccò picchi di diffusione inauditi, divenendo quasi una prassi abituale, tanto che ne furono colpiti addirittura numerosi Imperatori, oltre alle loro consorti e a membri autorevoli delle loro famiglie. Tanto che, se un Imperatore veniva spodestato, manu militari o per congiure di palazzo, oltre a temere – a ragione – per la propria vita, doveva inoltre aspettarsi di veder distruggere, per mano di chi gli sarebbe succeduto, non solo la propria autorità ed il proprio alone divino, ma tutto ciò che riguardava la sua figura, con l’inesorabile abbattimento di statue e monumenti onorari e con la cancellazione del proprio nome dalle iscrizioni di tutti i monumenti pubblici.

Per dare un’idea dell’insensata e spropositata diffusione della damnatio memoriae in età imperiale, basterà dire che ne furono colpiti ben venticinque Imperatori (Caligola, Nerone, Aulo Vitellio, Otone, Domiziano, Caio Avidio Cassio, Commodo, Didio Giuliano, Pescennio Nigro, Clodio Albino, Geta, Macrino, Eliogabalo, Massimino il Trace, Treboniano Gallo, Emiliano, Marco Aurelio Caro, Marcio Aurelio Numeriano, Marco Aurelio Carino, Massimiano, Massimino Daia, Massenzio, Licinio, Crispo e Costantino II°), varie Auguste, mogli o madri di Imperatori (fra cui Iulia Agrippina, Bruzia Crispina, Fulvia Plautilla, Iulia Soemia, Iulia Aquila Severa, Iulia Avita Manea, Caia Cornelia Supera e Fausta Massima Flavia) e un certo numero di Prefetti e Consoli, fra cui Caio Cornelio Gallo e Lucio Elio Seiano.

Ma i Romani, anche se, da provetti legislatori quali sempre si dimostrarono, questa pratica la istituzionalizzarono, nei fatti non ne furono gli ideatori. Questo strumento della cancellazione e della damnatio di oppositori, di re e di personaggi divenuti in qualche modo “scomodi” era infatti già praticata nell’Egitto faraonico e presso numerose civiltà del Vicino Oriente antico. Se ne hanno ampie testimonianze addirittura nell’antica Cina e in India.

I Cristiani, una volta preso stabilmente il potere a Roma, è fatto noto che si dedicarono ad una spietata e sistematica persecuzione nei confronti non solo delle loro eresie interne, ma di tutti i culti e di tutte le plurimillenarie religioni dei gentili, trasformando in pochi decenni quello che era un Impero fondato sulla piena tolleranza e libertà religiosa in una teocrazia nelle mani di un manipolo di vescovi fanatici e assetati di sangue, contribuendo così a far scivolare l’intera civiltà occidentale nel baratro del Medio Evo. Innumerevoli furono le illustri vittime di questa tremenda fase persecutoria avviata dai successori di Costantino, e fra tutte spicca la figura di Ipazia di Alessandria, la grande filosofa, iniziata e scienziata barbaramente assassinata nella capitale egiziana nel 415 da monaci istigati dal vescovo Cirillo. E, anche se la damnatio memoriae continuò meno, in poca cristiana, da un punto di vista istituzionale (vi fu un drastico calo di formali condanne a tale pratica sanzionatoria, soprattutto nei confronti di Imperatori ed alte cariche dello Stato), essa divenne una prassi comune, quasi obbligata, nei confronti dei nemici e degli avversari – interni ed esterni – della Chiesa. Nemici ed avversari dei quali si tentò con ogni mezzo di cancellare o di obliarne la memoria, arrivando ad utilizzare la calunnia e la deliberata distorsione storica di fatti e vicende ad essi legate.

Ma la vittima più illustre, con il consolidarsi del potere della superstitio prava et immodica (come la definì Plinio), exitiabilis superstitio o superstitio malefica, come la definirono rispettivamente Tacito e Svetonio, fu senza dubbio la Tradizione Occidentale. Come sottolineò il grande Arturo Reghini[1], l’intolleranza religiosa, per cui diviene delitto perseguibile legalmente l’eterodossia del pensiero, non era sicuramente un carattere greco-romano. Il santo zelo della propaganda neppure; la subordinazione dei doveri del cittadino a quelli del credente, degli interessi della patria terrena a quelli della patria celeste neppure; la pretesa di rinchiudere la verità negli articoli di un credo, il fare dipendere la salvezza dell’anima dalla professione di una determinata credenza e dalla osservanza di una determinata morale neppure; lo spirito anarchico e democratico della fratellanza universale ed obbligatoria, della similitudine del prossimo e dell’eguaglianza neppure. Ci fa infatti notare sempre Reghini che «Non è il Cristianesimo che sia o sia divenuto occidentale, ma è l’Occidente che in certo modo è divenuto cristiano»[2]. E questa forzata cristianizzazione dell’Occidente, imposta con la spada e con lo scudo e al prezzo di centinaia di migliaia di martiri, ne ha pesantemente stravolto (anche se non cancellato del tutto) l’anima e la più intima essenza.

Ma la Tradizione non è un’astrazione o un mero concetto simbolico; essa è fatta anche di persone, di uomini e donne che, con il loro operato, con i loro scritti o con le loro azioni hanno contribuito a plasmarla, ad arricchirla e a difenderla. Personaggi come, ad esempio, gli Imperatori Flavio Eugenio e Flavio Claudio Giuliano e grandi donne, martiri ed iniziate, come l’Augusta Galeria Valeria e la filosofa Ippazia di Alessandria, che la Chiesa (e con essa il pensiero unico e totalizzante che ha usurpato l’Occidente) hanno condannato a secoli di damnatio memoriae.

In taluni casi si è arrivati addirittura, in un curioso parallelismo con la sovrapposizione e sostituzione “sincretica” di santi cristiani alle Divinità gentili originariamente venerate in determinati templi, santuari o altri luoghi di culto, alla creazione ad hoc di figure immaginarie di santi, costruite ed amplificate dall’agiografia, destinate ad essere sovrapposte a figure scomode del precedente regime dottrinale e, nei fatti, a sostituirle nell’immaginario popolare. Il ricorso ad una simile pratica si rendeva necessario, agli occhi della Chiesa, soprattutto quando le figure da obliare risultavano particolarmente “ingombranti” o nel caso in cui fossero state talmente note

presso l’opinione pubblica da renderne praticamente impossibile una cancellazione o una semplice damnatio memoriae tout court.

E questo fu proprio il caso di Ipazia di Alessandria, per la cancellazione della cui memoria la Chiesa dovette inventarsi una figura che ne rivestisse, seppur abilmente invertite e ribaltate nei contenuti, le principali caratteristiche. Stiamo parlando della figura di Santa Caterina di Alessandria.

Un interessante articolo di Sergio Michilini, intitolato Masolino, il Cardinal Branda e il transfert Ipazia/Caterina d’Alessandria[3],  riprendendo ed ampliando su nuove prospettive quanto già scritto da Silvia Ronchey nel suo saggio Ipazia, la vera storia[4], traccia un interessante parallelismo fra la figura della grande iniziata, scienziata e filosofa neoplatonica e quella di Santa Caterina d’Alessandria, la vergine e martire presuntamente uccisa nella capitale egiziana dai “pagani” nell’anno 305 dell’era volgare, quindi quasi un secolo prima del martirio di Ipazia.

Occorre premettere che non esiste alcuna prova storica fondata della reale esistenza di questa ipotetica “martire” cristiana, tanto che la stessa agiografia non è mai stata in grado di indicarne, neppure in maniera approssimativa, la data della nascita. E, al di là delle leggende popolari, le uniche fonti scritte che ne fanno menzione sono posteriori di diversi secoli ai fatti che pretenderebbero di narrare. La più antica è una passione scritta in lingua greca fra il VI° e il VII° secolo; vi sono poi un’altra passione, la Passio Sanctae Katherinae Alexandriensis, di autore sconosciuto e databile fra il 1033 e il 1048, e la più nota Leggenda Aurea di Jacopo Da Varagine, databile fra il 1260 e il 1298, il cui capitolo CLXIX° è in sostanza la fonte principale di tutte le speculazioni agiografiche successive che hanno interessato e glorificato questo fantasmagorico personaggio.

Secondo la tradizione popolare cristiana, Caterina sarebbe stata una bella e giovane vergine egiziana educata secondo i dettami del Cristianesimo. La Leggenda Aurea del Da Varagine la fa addirittura figlia di re e istruita fin dall’infanzia nelle arti liberali. Sempre secondo la tradizione, nell’anno 305 un imperatore romano avrebbe tenuto grandi festeggiamenti in proprio onore ad Alessandria. La Leggenda Aurea parla di Massenzio, ma molti ritengono che si tratti di un errore di trascrizione e che l’imperatore in questione possa essere stato invece Massimino Daia, che proprio nel 305 fu proclamato Cesare per l’Oriente nell’ambito della Tetrarchia (Governatore d’Egitto in quell’anno era invece, fin dal 303, il prefetto Clodio Culciano, che non pare possa essere il protagonista della storia). Caterina si presentò a palazzo nel bel mezzo dei festeggiamenti, nel corso dei quali si celebravano “feste pagane” con sacrifici di animali e accadeva anche che molti cristiani, per paura delle persecuzioni, accettassero di adorare gli Dei. La giovane rifiutò i sacrifici e chiese all’imperatore di riconoscere Gesù Cristo come redentore dell’umanità, argomentando la sua tesi con profondità filosofica. L’imperatore, che, secondo la Leggenda Aurea, sarebbe stato colpito sia dalla bellezza che dalla cultura della giovane nobile, convocò allora un gruppo di retori affinché la convincessero ad onorare gli Dei. Tuttavia, non solo questi retori non riuscirono a convincerla, ma essi stessi dall’eloquenza di Caterina sarebbero stati prontamente convertiti al Cristianesimo. L’imperatore, infuriatosi, ordinò allora la condanna a morte di tutti questi retori e, dopo l’ennesimo rifiuto di Caterina ad onorare gli Dei, la condannò a morire anch’essa su una ruota dentata. Ma, narra sempre la tradizione agiografica, lo strumento di tortura e condanna si ruppe e Massimino fu obbligato a far decapitare la santa, dal cui collo sgorgò latte, simbolo della sua purezza.

Sempre secondo l’agiografia, dopo il martirio il corpo di Caterina sarebbe stato trasportato dagli angeli sul Monte Sinai, e in questo luogo, nel VI° secolo, l’imperatore Giustiniano fondò il celebre monastero che ancora oggi porta il nome della santa.

Questo riporta il sito cattolico www.santodelgiorno.it alla voce Santa Caterina d’Alessandria, basandosi su una traduzione alquanto disinvolta del capitolo 172 della Leggenda Aurea del Da Varagine, quello appunto dedicato alla fantomatica santa:

«Nata da stirpe reale, fu dotata dalla natura di un ingegno e di una bellezza così rara, che era stimata la più fortunata giovane della città.
Ammaestrata in tutte le scienze, ma soprattutto nella filosofia dai più celebri retori, seppe innalzare il suo intelletto al disopra delle cose materiali, e dalle creature ascendere al Creatore.
Perciò, appena senti parlare della religione di Cristo, il suo acuto ingegno aiutato dalla grazia di Dio comprese che essa era la vera, e l’avrebbe abbracciata subito, se alcuni legami terreni non le avessero impedito il passo decisivo. Ma il Signore, che la voleva sua sposa, affrettò il suo ingresso nello stuolo delle candide colombe a lui consacrate.
Compresa dell’amore che il Signore nutriva per lei, si fece battezzare, dedicandosi totalmente alla beneficenza ed alla istruzione dei pagani. E tanto crebbe la fama della sua carità e del suo sapere, che giunse alle orecchie dello stesso imperatore Massimino. uomo tristemente celebre per la sua ferocia.
Egli fece chiamare Caterina alla sua presenza, per avere notizie più certe di ciò che di lei udiva e per conoscere più da vicino colei che tanto si celebrava.
Ma appena seppe dalla bocca stessa della Santa che era cristiana, subito con minacce ed imprecazioni ordinò che rinunciasse a quel culto da lui odiato, e sacrificasse a Giove.
Non si sgomentò il virile animo di Caterina a quelle parole, ma prontamente rispose ch’era risoluta di rimanere nella religione che professava, e incominciò a parlare della vanità degli dai e della verità dell’unico vero Dio con parole così ardenti che l’imperatore medesimo rimase sconcertato.
Fu quindi affidata ad alcuni filosofi pagani perché la convincessero d’errore, ma ella riuscì a condurli alla vera religione.
A tale smacco il feroce imperatore condannò a morire sul rogo quei nuovi convertiti, e presa Caterina, dopo villanie e disprezzi, comandò che il suo corpo fosse legato ad una ruota e poscia con uncini le fossero strappate le carni.
La Santa non si intimorì per simile supplizio, ma felice di dar la vita per il suo Sposo, si apprestò a morire fra quei tormenti. Appena quel corpo verginale fu a contatto con lo strumento del suo martirio, questo si spezzò fragorosamente, producendo gran panico fra i carnefici. Non si piegò l’animo di Massimino, e comandò che la Santa fosse immediatamente condotta fuori della città e le fosse reciso il capo.
Giunta al luogo del martirio, le furono bendati gli occhi ed il carnefice con un colpo staccò il capo di Caterina, ma da quella ferita sgorgò abbondante latte, ultima testimonianza della sua innocenza.
Il suo corpo venne dagli stessi Angeli trasportato sul monte Sinai e quivi seppellito. Sul suo sepolcro fu poi edificato un sontuoso tempio ed un grandioso monastero che resero imperitura la memoria di questa vergine di Cristo». 

 

Come sottolinea Silvia Ronchey nel suo saggio, la storia, o “passione” di questa martire, che avrebbe ispirato in seguito addirittura Giovanna D’Arco (è infatti identificata, insieme a Santa Margherita di Antiochia ed all’Arcangelo Michele, come una delle “voci” che guidarono la pulzella di Orleans) si materializzò molto tardivamente nei testi martirologici (come abbiamo visto, non prima del VI° secolo) «ma fu solo nel nono che affiorò nella devozione dei sant’uomini del monastero fatto costruire da Giustiniano sul monte Sinai, dedicato alla Trasfigurazione, ma che da allora prese il nome di Santa Caterina del Sinai. La santa-fantasma divenne allora celebre sia nel mondo bizantino, sia, o anzi soprattutto, in occidente, e più per la sua diffusione iconografica che per quella letteraria[5]». Tanto che in Francia è divenuta la patrona degli studenti di Teologia e delle apprendiste sarte, mentre in Italia non solo è arrivata ad essere riconosciuta come patrona degli studenti di Giurisprudenza nelle università di Padova e di Siena, ma addirittura come protettrice di cartai, ceramisti, mugnai e filosofi (sic!) e patrona di oltre cinquanta comuni, fra cui Bertinoro, Guastalla, Deruta, Dorgali, Scandiano, Locri e Paceco. E sono ben trentacinque, soltanto in Italia, le chiese ad essa dedicate.

Sempre secondo la Ronchey, gli studiosi dell’esiguo numero di pasiones bizantine che la menzionano non hanno potuto fare a meno di sospettare «che alla santa cristiana siano stati prestati i tratti della “santa laica” – e vergine e martire laica – massacrata non dall’imperatore romano Massimino, insidiatore del legittimo scettro di Costantino, ma dal faraone del monofisismo egizio Cirillo, usurpatore del legittimo potere statale emanante dal governo centrale di Costantinopoli»[6]. In sostanza, i tratti della martire Ipazia di Alessandria!

Che il martirio di Santa Caterina d’Alessandria e la sua esistenza storica fossero un falso clamoroso, sottolinea sempre la Ronchey[7], venne sostenuto già nel XVIII° secolo dal dotto Jean Pierre Defòris, tanto che la sua festa fu abolita dal Breviario di Parigi. Il povero Dom Defòris morì ghigliottinato nel 1794, ma lo scetticismo degli studiosi, sia laici che ecclesiastici, sopravvisse, motivato anche dalla mancanza di tracce della venerazione della sepoltura della santa negli itinerari dei pellegrini altomedioevali al Sinai, nonostante la leggenda volesse che qui il suo corpo e la sua testa fossero stati miracolosamente trasportati dopo il martirio da due angeli.

Le scarse e improbabili notizie sulla sua vita hanno sempre fatto dubitare della reale esistenza di una santa Caterina d’Alessandria d’Egitto. La stessa Chiesa Cattolica ha spesso espresso a riguardo i suoi seri dubbi, tanto che la santa venne clamorosamente esclusa dal Martirologio nel 1962 e la sua cancellazione dal calendario liturgico venne confermata da Papa Paolo VI° nel 1969, in  quanto «personaggio non storico, mai esistito». Sarà reintrodotta nel culto e nel calendario liturgico, seppur “in maniera facoltativa” soltanto diversi anni dopo ad opera di Papa Benedetto XVI°, lo stesso che ha promosso solenni festeggiamenti in onore del “Dottore della Chiesa” Cirillo, nominato tale nel 1882, dopo millecinquecento anni dal suo sanguinoso episcopato, dal suo predecessore Leone XIII°, «un Papa ossessionato dalla Massoneria e dai liberali mangiapreti che dominavano nella Roma dei suoi tempi»[8], al quale del resto è stata attribuita la celebre e controversa frase «la favola di Cristo ci frutta tanto che sarebbe pazzia avvertire gl’ignoranti dell’inganno»[9].

Al contrario della fantomatica Caterina d’Alessandria, l’esistenza di Ipazia di Alessandria e il suo martirio (che venne occultato per secoli) perpetrato ad opera del vescovo Cirillo e dei suoi fanatici monaci, è dettagliatamente e abbondantemente documentato da fonti attendibilissime, fin dai giorni dei tragici eventi di Alessandria che, ricordiamo, iniziarono con la distruzione della più grande Biblioteca del mondo antico, sede di tutto il sapere romano-ellenistico e grande centro di trasmissione iniziatica.

Ma, tornando all’interessante articolo di Sergio Michilini, vediamo come l’autore abbia individuato ulteriori conferme, oltre ad interessanti aspetti esoterici che più avanti approfondiremo, del transfert Ipazia – Santa Caterina in un celebre ciclo di affreschi aventi come oggetto la storia della fantomatica santa, realizzati da Masolino Da Panicale nella basilica di San Clemente a Roma, proprio in una cappella alla santa alessandrina dedicata.

Questo ciclo di affreschi venne commissionato a Masolino dal Cardinale Branda Castiglioni (1350-1443), una straordinaria figura di umanista e mecenate, divenuto, per via delle sue potenti amicizie in varie corti italiane ed europee, un preciso punto di riferimento per la cultura quattrocentesca.

Primogenito di una nobile famiglia milanese, Branda Castiglioni rinunciò ai privilegi della nobiltà per dedicarsi sin da giovane alla carriera ecclesiastica. Compì i suoi primi studi a Milano e nel 1374 lo troviamo iscritto nel collegio dei Nobili Giureconsulti della città lombarda. Si iscrisse poi all’Università di Pavia, conseguendovi nel 1389 il dottorato in Diritto Civile e Canonico e finendovi poi ad insegnare per un breve periodo. Nello stesso anno venne inviato a Roma da Gian Galeazzo Visconti, presso la corte di Papa Bonifacio IX°, con lo scopo ufficiale di ottenere privilegi e garanzie in favore dell’Università di Pavia, l’autorizzazione a introdurvi l’insegnamento di Teologia ed il conferimento delle medesime condizioni concesse alle Università di Bologna e di Parigi.

Nello stesso periodo venne nominato Uditore del Collegio della Sacra Rota da Bonifacio IX°, il quale lo inviò poi dapprima in Germania come legato pontificio e poi a Colonia e nelle Fiandre come nunzio apostolico e, infine, in un altra missione in Ungheria e in Transilvania. Fu in questa occasione che nacque una profonda amicizia fra Branda Castiglioni e Sigismondo di Lussemburgo, Re d’Ungheria, Croazia e Boemia, Rex Romanorum e Imperatore del Sacro Romano Impero.

Nel 1409 prese parte al Concilio di Pisa, indetto per porre fine allo scisma d’Occidente e per risolvere una controversia tra un Papa eletto a Roma ed un altro eletto ad Avignone. Al termine di tale Concilio venne eletto Papa Alessandro V°, il quale normalizzò la situazione ma morì pochi mesi più tardi. Suo successore fu Giovanni XXIII°, il napoletano Baldassarre Cossa (bollato poi, a torto, come “antipapa”), il quale reinviò Branda Castiglioni in Ungheria come legato pontificio, nominandolo poi, nel 1411, Cardinale di Santa Romana Chiesa. Nomina che indubbiamente rafforzo la sua posizione presso Sigismondo di Lussemburgo e, di conseguenza, con il Duca di Milano Filippo Maria Visconti.

Il perdurare dello scisma rese necessaria l’apertura di un nuovo Concilio che aprì a Costanza il 5 Novembre 1413 alla presenza di Giovanni XXIII e di Sigismondo. Branda Castiglioni partecipò a parecchie sessioni e si adoperò per giungere ad un accordo. L’11 Novembre del 1417 il conclave proclamò eletto Papa Ottone Colonna, che assunse il nome di Martino V° e fu l’unico Pontefice riconosciuto da tutta la Chiesa, il quale nel 1421 lo inviò in Boemia come legato pontificio, con lo scopo di arginare il movimento ereticale dei seguaci di Jan Hus, e da qui di nuovo a Colonia, al fianco di un potente esercito imperiale capitanato da Filippo Scolari (meglio noto come Pippo Spano).

Terminata la crociata, il Cardinale Branda Castiglioni proseguì la sua attività diplomatica in Ungheria dove, nel 1411, era stato insignito del titolo di Conte di Veszprém. Passò poi nuovamente in Germania con l’incarico di riformare il clero tedesco.

Rientrato in Italia partecipò alle trattative fra Milano e Firenze. Era infatti considerato un grande amico della famiglia Medici, anche se si mantenne sempre fedele ai Visconti.

Nel 1431, dopo aver convocato alcune sessioni di un nuovo Concilio a Basilea, moriva Papa Martino V°, al quale successe Eugenio IV°, eletto dai Padri Conciliari di Branda Castiglioni. Il Concilio si concluse nel 1437, stabilendo che si sarebbe riconvocato a Firenze per tentare una riconciliazione tra la d’Occidente e quella d’Oriente. Il nuovo Concilio si tenne a partire dal 1438, in varie sessioni, tra le città di Firenze e Ferrara e Branda Castiglioni vi sottoscrisse i più importanti documenti di Papa Eugenio IV°, mentre fu ospite della casa dei Medici e consolidò con la città di Firenze rapporti intrapresi già con successo qualche anno prima. Si trattò del medesimo Concilio che vide la presenza, in qualità di consigliere dell’Imperatore bizantino Giovanni VIII°, del grande Giorgio Gemisto Pletone, suprema guida dell’Ordine degli Eleusini di Rito Pitagorico, che proprio a Firenze aveva messo solide radici con l’apertura dell’Accademia Platonica, grazie all’operato di Cosimo dei Medici e di altri grandi iniziati come Marsilio Ficino e Matteo Palmieri.

Come ho scritto in un mio recente saggio[10], pochi sanno che alcune Scuole e Tradizioni Misteriche dell’antichità, in primis quelle Eleusine di Rito Madre e di Rito Pitagorico, sono sopravvissute fino ai nostri giorni, infiltrandosi addirittura all’interno della Chiesa, e determinando alcuni fra i maggiori eventi e fra le maggiori trasformazioni sociali degli ultimi secoli, a cominciare dal Rinascimento. Il Rinascimento, infatti, per via della presenza attiva di importanti iniziati Eleusini all’interno delle principali Corti e Signorie dell’Italia centro-settentrionale del XV° e XVI° secolo (in particolare in quella dei Medici a Firenze, in quella Estense a Ferrara e in quella dei Da Varano a Camerino) potette esplodere in tutto il suo splendore, con la riscoperta dell’Arte, della Filosofia e della Letteratura della Classicità e con una piena rinascita delle Scienze, accompagnata ad una vera rinascita delle coscienze.

A differenza di altri illustri personaggi di quel tempo, di cui è attestata e ben documentata l’appartenenza a determinati circoli iniziatici “pagani” di ambito pitagorico o neoplatonico, non ho fino ad oggi trovato elementi tali per poter confermare con certezza l’appartenenza a certi ambiti del Cardinale Branda Castiglioni. Anche se la sua figura di amico di potenti, legato da profonde amicizie con i sovrani dell’epoca, umanista, mecenate della cultura e delle arti attento alle correnti artistiche e letterarie del momento, tanto da farne un indiscusso punto di riferimento per tutta la cultura del suo tempo, farebbero propendere per questa ipotesi.

Ma, ancor più di queste sue caratteristiche non di poco conto, l’indizio maggiore di una segreta appartenenza di Branda Castiglioni ad ambiti iniziatici tutt’altro che cristiani potrebbe fornircelo proprio il fatto di aver commissionato a Masolino da Panicale il ciclo di affreschi su Santa Caterina d’Alessandria proprio nella basilica di S. Clemente a Roma, nel cuore della Cristianità.

A prescindere da una sua ipotetica appartenenza iniziatica, un uomo di profonda cultura come Branda Castiglioni non poteva certo ignorare la figura di Ipazia di Alessandria e l’artificiosità del mito agiografico della santa, fino ad arrivare alla sostituzione “sincretistica” della prima con la seconda operato dalla Chiesa nel tentativo di cancellarne per sempre la memoria.

Che ragione poteva avere, quindi, un Cardinale di Santa Romana Chiesa a commissionare a un artista come Masolino da Panicale (non certo estraneo alle simbologie esoteriche), fra un numero di santi e martiri pressoché sterminato a disposizione, proprio degli affreschi dedicati alla santa-fantasma nel cuore del potere papale?

La mia è soltanto un’ipotesi che forse non troverà conferma, ma ritengo che egli volesse lanciare un preciso messaggio a chi era in grado di comprenderlo: che la Filosofia, e con essa la Tradizione Iniziatica dell’Occidente, nonostante secoli di persecuzioni, era più viva che mai e che il Rinascimento delle Arti, della Sapienza e della Cultura, che in quegli anni stava prendendo forma, avrebbe presto gridato al mondo intero, attraverso lo splendore sibillino delle sue grandi opere d’arte, che Ipazia stessa era viva, più viva che mai, nei cuori e nelle menti degli uomini liberi.

 

Nicola Bizzi

 

[1] Arturo Reghini, Sulla Tradizione Occidentale, Saggio pubblicato nel 1928 sulla rivista Ur e recentemente ripubblicato da Aurora Boreale, con prefazione e saggio introduttivo di Nicola Bizzi.

[2] Ibidem.

[3] Articolo pubblicato in rete sul sito: www3.varesenews.it/blog/labottegadelpittore.

[4] Silvia Ronchey, Ippazia, la vera storia, ed. Rizzoli, Milano 2010.

[5] Silvia Ronchey: Opera citata.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Emilio Bossi, Gesù Cristo non è mai esistito, Società Editoriale Milanese, Milano 1904, recentemente ristampato da Aurora Boreale con prefazione e saggio introduttivo di Nicola Bizzi.

[10] Nicola Bizzi, La trasmissione di una Conoscenza Segreta, Ed. Aurora Boreale, Firenze 2017.

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EGITTO E MISTERI ELEUSINI: L’equivoco della presunta origine dell’Eleusinità dall’Egitto e l’ellenizzazione dei Riti di Iside e Osiride di Nicola Bizzi

EGITTO E MISTERI ELEUSINI:

L’equivoco della presunta origine dell’Eleusinità dall’Egitto

e l’ellenizzazione dei Riti di Iside e Osiride

 

di Nicola Bizzi

(estratto dal volume Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta. Edizioni Aurora Boreale, Firenze 2017)

 

La questione dell’origine dell’Eleusinità e dei suoi Misteri è stata oggetto in passato, in ambito storico e storico-religioso, di intensi dibattiti, di diatribe e di discussioni che hanno spesso spaccato il mondo accademico, protraendosi, nonostante le evidenze archeologiche emerse dagli scavi del XIX° e del XX° secolo, in parte ancora oggi. E la ragione sostanziale per cui non vi è stata ancora fra gli storici una piena identità di vedute a riguardo può essere in buona parte ricercata nella non obiettiva e fallace interpretazione di numerose fonti antiche, fonti che, come vedremo, erano fortemente condizionate da un pregiudizio fondato sul falso mito della presunta superiorità dell’Egitto e delle sue tradizioni religiose e sapientali sul mondo ellenico.

Una visione, questa, che infatti ritroviamo in molti autori Greci, che tendevano a mitizzare la cultura egizia, indicandola erroneamente come la madre di ogni sapienza e di ogni prototipo religioso.

In varie parti di questo saggio viene sottolineato e spiegato che la comune associazione della Dea Demetra al grano, alle messi e alla fertilità della terra sia frutto di una visione popolare e profana dello hieros-logos eleusino e che in realtà, dal punto di vista iniziatico, coloro che ricevevano in Eleusi il sale della vita, accedendo ai Sacri Misteri, sono sempre stati ben consapevoli dell’infondatezza di alcun preteso nesso o legame fra la Dea e il biondo frutto della terra, e del fatto che la presenza della spiga in varî passaggi della ritualità e il conferimento, da parte di Demetra, a Trittolemo del compito di “seminatore” erano finalizzati alla comprensione di concetti assai più profondi, quali la natura dell’anima umana e la sopravvivenza di essa alla morte attraverso il ciclo delle rinascite (la spiga di grano rappresenta infatti, esotericamente, il ciclo della vita: concepimento, nascita, crescita, morte e nuova vita. E L’iniziato, come la spiga mietuta, offre dunque se stesso e i suoi semi, cioè la ricchezza della sua esperienza personale, che nel tempo ha “maturato” e può ancora “perfezionare”). Eppure, nonostante la palese evidenza che la conoscenza dei cereali e la loro coltivazione fossero una realtà consolidata, in Attica come in numerose altre parti del mondo antico, già millenni prima dell’incarnazione della Dea, del suo arrivo ad Eleusi e della sua Rivelazione, attorno al mito della presunta associazione fra Demetra e la nascita dell’agricoltura e fra la Dea e la diffusione del frumento e di altri analoghi cereali, sono fioriti i miti e le leggende più disparati, molti dei quali avevano fini prettamente “politici”. Miti e leggende che non hanno fatto altro che alimentare la presunta correlazione fra Demetra e il grano, influenzando per secoli la poetica e la letteratura. Basti ricordare a riguardo i celebri versi citati da Plutarco nei Moralia: «Che mai serve ai mortali oltre queste due cose: la spiga di Demetra e un sorso d’acqua pura?».

La lettura della Bibliotheca Historica di Diodoro Siculo ci offre numerosi esempi di una certa strumentalizzazione “politica” delle interpretazioni profane dello hieros-logos eleusino in relazione al collegamento Demetra-frumento e di come varie polis della Grecia, e persino varie nazioni non greche dell’area mediterranea, fossero solite contendersi il primato della “scoperta” del grano, dichiarando e pretendendo che il loro territorio fosse stato “visitato” dalla Dea prima degli altri. I Sicelioti, ad esempio, in quanto abitavano un’isola per varie ragioni sacra a Demetra e a Kore-Persefone, ritenevano verosimile che la Dea avesse elargito a loro per primi il biondo frutto della terra. Scriveva infatti a riguardo Diodoro che per i Sicelioti «sarebbe infatti strano che la Dea da un lato considerasse propria questa terra fertilissima e dall’altro la rendesse partecipe del beneficio per ultima, come se le fosse indifferente, avendo per di più Ella avuto dimora proprio qui»[1].

Come sottolinea l’archeologa Anna Maria Corradini, il fatto che Diodoro affermi che la Sicilia sia stata la prima in assoluto a conoscere il grano e che solo dopo Demetra, vagando alla ricerca della Figlia, lo abbia donato agli Ateniesi, deve far riflettere: se esistono fattori campanilistici per cui Diodoro, nativo di Argira, è propenso ad attribuire alla Sicilia il primato della scoperta del grano, tuttavia l’antichità del culto sembra un fatto acclamato[2]. E questo è vero, perché, a prescindere dai “campanilismi” e dalle assurde illazioni in merito ad un presunto primato della coltivazione del grano, il culto delle Due Dee, Demetra e Kore-Persefone, è attestato in Sicilia sin dalle epoche più remote della “Coscienza Proto-Eleusina”, quando l’isola rientrava a pieno titolo sotto l’influenza politica, culturale e religiosa della Creta minoica.

Ma la versione del mito, fra quelle riportate da Diodoro, che più appare elaborata per fini prettamente politici risulta essere quella diffusa dagli Egiziani. Scrive infatti Diodoro: «Gli Egiziani affermano che Demetra e Iside sono la stessa Divinità e che la Dea portò il seme in Egitto prima che altrove, poiché il fiume Nilo irriga le pianure al momento opportuno e la loro terra gode di un eccellente clima temperato»[3].

Molti storici hanno sostenuto che da queste parole di Diodoro si comprenderebbe come per gli Egiziani l’identificazione di Iside con Demetra e la loro assimilazione in un’unica Divinità, nonché il vantare un presunto primato nella coltivazione cerealicola connesso a tale identificazione, potesse assumere una sorta di valore “politico”, funzionale con certe presunte mire espansionistiche, oltre che commerciali, che di tanto in tanto potevano emergere in seno alla corte faraonica nei confronti dell’Attica e di altri territori greci. Ma personalmente ritengo del tutto improbabili e irrilevanti eventuali mire espansionistiche dell’Egitto faraonico nei confronti della Grecia. Durante l’Antico Regno (2700-2192 a.C.), il Primo Periodo Intermedio (2192-2055 a.C.) e il Medio Regno (2055-1650 a.C.) sia l’area dell’attuale Grecia continentale che le numerose isole dell’Egeo erano sotto il diretto controllo della Creta Minoica, con la quale l’Egitto aveva un canale preferenziale nel commercio e solidi rapporti di alleanza. Il Secondo Periodo Intermedio (1650-1550 a.C.) di fatto coincise con l’invasione degli Hyksos e con il loro dominio sull’area del Basso Egitto e del delta del Nilo. Soltanto durante il Nuovo Regno (1550-1069 a.C.) e il Terzo Periodo Intermedio (1069-664 a.C.), fasi successive al tracollo della civiltà minoica e della propria talassocrazia e coincidenti con la cosiddetta Età Micenea e con il Medio Evo Ellenico, tali mire sarebbero state ipoteticamente possibili e plausibili, ma non ebbero di fatto alcuna conseguenza che andasse oltre gli scambi commerciali e la creazione di limitati ed esigui insediamenti costieri. Quindi dobbiamo dedurne che l’interpretazione egizia del mito di Demetra, l’associazione-identificazione di quest’ultima con Iside e il suo collegamento con un ipotetico primato nella coltivazione cerealicola siano relativamente tardive e dettate da un sentimento nazionalistico fondato anche sulla presunzione di una superiorità sia religiosa che culturale dell’Egitto. Un sentimento che, del resto, nella terra del Nilo era assai diffuso nei confronti degli altri popoli, mediterranei e non. Ma vediamo, prima di esprimere ulteriori commenti e considerazioni, con le stesse parole di Diodoro, quale fu questa “interpretazione” egizia:

«(…) Eretteo, che era originario dell’Egitto, divenne Re degli Ateniesi. Queste le prove: durante la siccità generale che, per ammissione comune, colpì quasi tutta la terra abitata, ad eccezione dell’Egitto per il carattere peculiare di tale regione, e che provocò la distruzione dei raccolti e la morte di un gran numero di uomini, Eretteo fece portare dall’Egitto, per le affinità di sangue che lo legavano a quella terra, una grande quantità di grano. In cambio, il popolo beneficato elesse Re il suo benefattore. Questi, assicuratosi il potere, insegnò le cerimonie iniziatiche di Demetra a Eleusi e fondò i culti misterici, trasferendone il rituale dall’Egitto. Né risulta contraria a ragione la tradizione che colloca l’avvento della Dea in attica in questo periodo, come se fosse allora che i frutti legati al nome di Demetra fossero stati introdotti in Atene, e pertanto si pensò che nuovamente fosse avvenuta la scoperta dei semi e che questi fossero doni della Dea. Anche la tradizione ateniese ammette, dal canto suo, che durante il regno di Eretteo, dopo che l’assenza di piogge aveva cancellato i raccolti, Demetra fece la sua comparsa in Attica col dono del grano. Inoltre, i riti iniziatici e i Misteri di questa Dea proprio allora sono stati istituiti a Eleusi. Anche per quanto riguarda i sacrifici e le cerimonie più antiche, il comportamento degli Ateniesi è simile a quello degli Egiziani: infatti gli Eumolpidi derivano dai sacerdoti egiziani e i Kerykes dai pastofori. Si aggiunge che gli Ateniesi sono i soli tra i Greci a giurare nel nome di Iside e che per aspetto e costumi sono davvero vicini al popolo egiziano.

Con questi e con altri analoghi discorsi, dettati a mio parere più dall’ambizione che dall’amore di verità, gli Egiziani rivendicano Atene come loro colonia per via dell’importanza e della gloria della città»[4].

Sinceramente, una simile sequela di sciocchezze prive di alcun fondamento non meriterebbe alcun commento e alcuna considerazione. È stato però necessario riportarla in questa sede ai fini della chiarezza, poiché tale “interpretazione” egizia ha storicamente fatto più danno della grandine, influenzando dapprima diversi antichi autori e, in epoca più recente, una schiera di storici delle religioni che hanno preteso di ravvisarvi un qualche fondo di verità. Ma questa “favoletta” egizia, probabilmente diffusasi, con fini di rivalsa “nazionalista”, fra la fine del decadente Terzo Periodo Intermedio e l’inizio della dominazione persiana sulla terra del Nilo, e dalla quale lo stesso Diodoro prende ampiamente le distanze, si smonta da sé con poche semplici considerazioni. Innanzitutto perché Eretteo, sesto mitico Re di Atene che la tradizione vuole figlio (o, in altri casi, nipote) di Erittonio (altro mitico Sovrano ateniese che Pausania ci dice figlio di Efesto e di Gea[5] e che Apollodoro indica come figlio di Efesto e di Atena[6]), non può in alcun modo essere collegato con l’Egitto, né gli si possono attribuire origini egiziane. In secondo luogo egli ci viene descritto concordemente da tutte le fonti come acerrimo nemico di Eleusi, contro la quale ingaggiò una lunga guerra; nemico sia da un punto di vista politico che, soprattutto, da un punto di vista religioso. Non avrebbe quindi potuto in alcun modo rendersi artefice dell’istituzione, in una città a lui nemica, di un culto misterico che già peraltro esisteva e al quale era nettamente ostile.

Per non parlare della ridicola presunzione di far derivare dai Sacerdoti egiziani le due principali Tribù sacerdotali di Eleusi, gli Eumolpidi e i Kerykes!

Eppure, certe “mitologie” nazionalistiche egizie, accompagnate dalla pretesa di vedere nelle Divinità elleniche una presunta origine dalla terra bagnata dal Nilo e di vedere, di conseguenza, l’Egitto come depositario di ogni originaria ed antica sapienza, influenzarono non poco la mentalità ellenica. Una tendenza, questa, che si accentuò ulteriormente e notevolmente in età ellenistica, con la conquista del regno faraonico da parte di Alessandro Magno e con il conseguente incontro diretto e prolungato fra la cultura egizia e quella greca; incontro che permise al mito osiriano quale si svilupperà in questa nuova fase storica sotto il patrocinio di una figura di Iside marcatamente “ellenizzante”, cuius nomen Aegyptiis placet, di sublimare all’alto valore di pegno mistico dell’immortalità beata i vecchi riti funerari propri della terra d’Egitto. Ma anche un incontro che dette inevitabilmente vita a inedite forme di sincretismo religioso che culminarono nella creazione, squisitamente tolemaica, del culto di Divinità “costruite” come Serapide (Σέραπις), una nuova Divinità “creata” su misura, nelle intenzioni di Tolomeo I°, per il variegato e cosmopolita ambiente religioso-culturale alessandrino, che sarebbe dovuto divenire (e che in buona misura divenì) il perfetto connubio delle due tradizioni. Serapide si presentava, in tutte le raffigurazioni scultoree, con lineamenti marcatamente ellenici e con folta barba, richiamando così le tradizionali raffigurazioni di Zeus, con un kalathos sul capo (richiamando così aspetti propri della Tradizione Misterica che esamineremo in altri capitoli), ma riuniva in sé, snaturandole e stravolgendole, le figure di Osiride (Ausar nella forma originale egizia e Ὄσιρις nella sua forma ellenizzata) e quella del Dio Api (Hep nella forma originale egizia), un’antichissima Divinità il cui culto è attestato da Manetone già al tempo della IIª Dinastia e che a Menfi era venerata sotto la forma di un toro.

Si ebbe inoltre in quel periodo una forzata “ellenizzazione” di alcune delle tradizionali Divinità del complesso pantheon egizio, i cui nomi ci sono infatti pervenuti, nelle fonti letterarie greche e latine, nella loro forma ellenizzata, e una forzata, a tratti talvolta anche ridicola e paradossale, assimilazione di esse con alcune Divinità greche. L’oscena figura di Dioniso venne così assimilata, nella mentalità popolare greca, in maniera del tutto impropria, con quella di Osiride, che già abbiamo visto “aggregata” nella figura alessandrina di Serapide, Amon, “il misterioso”, “il nascosto” (nella forma originale egizia Imn), Divinità antichissima e della massima importanza, venne identificato con l’inflazionato e onnipresente Zeus, e Anubis (nella forma originale egizia Inpw), per via del suo ruolo di Divinità che presiede al mondo dei defunti, venne assimilato con il greco Hades (ᾍδης).

Altra aberrazione alessandrina fu il tentativo di riunire sincretisticamente le figure di Hermes e di Anubis, con l’artificiosa creazione di una nuova Divinità, Hermanubis, che non trovò però molto consenso fra le classi popolari dell’Egitto tolemaico. Si crearono anche forzate identificazioni e assimilazioni fra la Dea Hathor (Ḥwt-ḥr nella versione originale egizia) e Afrodite, fra il Dio Min (Mnw nella versione originale egizia), Divinità itifallica di origini antichissime e già venerata in epoca predinastica, e il greco Pan, fra la Dea Madre egizia Mut (Mwt nella forma originale), la “Signora del Cielo” associata alle acque da cui tutto aveva avuto origine per partenogenesi, e la scialba paredra di Zeus Hera, fra la Dea Neith (Nt nella forma originale), la patrona della città di Sais nel delta occidentale del Nilo, associata alla guerra e alla caccia e considerata artefice delle armi dei guerrieri e guardiana dei morti in battaglia, e Atena (e talvolta Artemide). Inoltre, Onuris (Inhert nella forma originale), Divinità anch’Essa associata alla caccia e alla guerra, il cui culto si sviluppò già in epoca remota nei deserti del Basso Egitto, conosciuto come colui che aveva raccolto l’occhio di Ra, di cui era il messaggero, venne immancabilmente assimilato al greco Ares, mentre Ra, antica Divinità solare del pantheon eliopolitano (forse l’u-nica il cui nome non venne ellenizzato), successivamente associata al Dio tebano Amon (dando così origine alla figura di Amon-Ra, la più importante Divinità del pantheon egizio a partire dalla XIIª Dinastia), venne assimilato con Helios. Si ebbero infine quantomeno curiose assimilazioni fra Nekhbet (Nḫbt nella forma originale), Dea dell’Alto Egitto di origini predinastiche raffigurata con le sembianze di un avvoltoio, e la Dea Titana Eileithyia (Εἰλείθυια), associata alla vita e ai parti, fra Hershef (Ḥry-š-f nella sua forma originale e Harsaphes nella sua forma ellenizzata), altra Divinità dell’Alto Egitto, una sorta di demiurgo che nacque dalle acque primordiali affiorando sul fiore di loto, il cui nome significa letteralmente “Colui che è sul suo stagno”, ma che veniva anche definita “Colui che ha grande forza”, e la figura di Eracle, e fra Nefertum (Nfr-tm nella forma originale), antico Dio della regione di Menfi, il cui nome significa “perfetto, senza uguali”, e il Dio Titano Prometeo. Ma l’assimilazione sincretica più nota di quel tempo fu senza dubbio quella fra Iside (Aset nella sua forma originale e Isis nella sua forma ellenizzata), Divinità di origine celeste, quindi stellare, associata alla maternità e alla fertilità, figlia di Nut e Geb, sorella-sposa di Osiride e madre di Horus, con la Dea Titana Demetra, l’istitutrice dei Sacri Misteri e la figura centrale della ritualità Eleusina.

 

Confronto fra una statuetta egizia raffigurante Iside che allatta Horus e un dipinto cristiano raffigurante la Madonna con Gesù Bambino

 

Obiettivamente possono essere ravvisati non pochi punti di contatto e similitudini fra le figure di Iside e di Demetra, ma da qui ad affermare, come hanno fatto taluni storici delle religioni, che la seconda possa derivare dalla prima o che siano identificabili come la stessa Divinità, ce ne corre. Una simile affermazione, come vedremo, oltre ad essere priva di oggettivo fondamento (poiché le due Dee mantennero sempre le proprie ben riconoscibili caratteristiche e singolarità), si inserisce di buon grado in quel fallace orientamento culturale che, sulla scia delle tendenze sincretistiche della tarda antichità e della riscoperta tardo-medioevale e rinascimentale della Tradizione Ermetica (che niente ebbe mai a che spartire con l’Eleusinità Madre), si riallaccia a quel deleterio atteggiamento relativistico, purtroppo fatto proprio anche da varî ordini iniziatici e in primis dalla Massoneria, che è sfociato nella delirante idea di una presunta unità trascendente delle religioni nel segno di un’altrettanto presunta unica Tradizione primordiale. Un’idea, quest’ultima, che gli Eleusini hanno sempre aborrito e fortemente confutato e che prenderemo meglio in esame nel capitolo Misteri e Filosofia.

Prima di prendere in esame nel dettaglio le cause e le ragioni dell’assimilazione sincretica fra le figure di Iside e di Demetra, focalizziamoci sul particolare contesto storico che fece sì che una dottrina religiosa che mai, nei secoli, era uscita dai sacri confini della terra dei Faraoni, ad “ellenizzarsi” e a diffondersi in tutto il bacino mediterraneo e anche oltre. E per fare ciò dobbiamo risalire all’anno 525 a.C., quando l’Egitto, ad opera dell’Achemenide Cambise II° (in Greco Καμβύσης, in Persiano antico Kambūjia), figlio di Ciro il Grande, dopo la sconfitta del Faraone Psammetico III° con cui si chiuse la XXVI° Dinastia, venne a perdere la propria indipendenza, finendo sotto il giogo dei Persiani, che lo ridussero ad una semplice provincia del loro Impero. Cambise, come del resto i suoi successori, ostentò un assoluto disprezzo sia per la cultura che per le tradizioni religiose del paese conquistato, disprezzo che toccò toni sacrileghi e dissacratorî, come nel caso in cui il Re dei Re si spinse a uccidere di propria mano il Sacro Bue Apis.

Dopo circa due secoli di oppressione persiana, l’Egitto passò, nel 332 a.C., sotto il dominio di Alessandro Magno. Il Macedone, al contrario dei Persiani, si dimostrò sin da subito artefice e promotore di una politica straordinariamente tollerante e rispettosa per le tradizioni delle terre a lui soggette. Tanto che il conquistatore si spinse addirittura a recarsi a Menfi per sacrificare al Sacro Bue Apis nel Tempio di Ptah.

Con la morte di Alessandro, avvenuta a Babilonia nel 323 a.C., e con la spartizione non certo incruenta dell’immenso e variegato territorio da egli conquistato fra i suoi diadochi, l’Egitto passò – come già abbiamo visto – ad uno di essi, Tolomeo Lagide, che nel 305 a.C. si autoproclamò Sovrano della terra bagnata dal Nilo, estendendo il suo controllo fino alla Cirenaica.

Nato nell’Eordia, regione centro-occidentale della Macedonia, nel 366 a.C., e figlio di Lago, un fedele ufficiale di Filippo II° (circolava a quel tempo la voce che fosse in realtà un figlio illegittimo del Sovrano e di una sua concubina, Arsinoe, che Filippo avrebbe dato in sposa a Lago quando questa era già incinta), Tolomeo fece una brillante carriera militare, prima al fianco di Filippo e poi con Alessandro, seguendolo nelle sue campagne di conquista. Si iniziò già in giovane età ai Misteri di Samotracia e ai Misteri Eleusini e la sua sensibilità religiosa trovò piena e proficua applicazione non appena, incoronatosi novello Faraone e fregiatosi dell’appellativo di Sotere (Salvatore), iniziò a regnare sull’Egitto, dando inizio a una dinastia destinata a restare saldamente al comando del paese finché questo, con la sconfitta e la morte di Cleopatra VIIª, cadde nel 30 a.C. sotto il dominio di Roma.

Tolomeo adottò fin da subito una lungimirante e saggia linea politica tesa ad accattivarsi le simpatie e il consenso dei suoi sudditi, non solo rispettando e valorizzando le loro antiche tradizioni, ma dando anche vita a un progressivo processo di amalgamazione del patrimonio culturale-religioso e sapientale egizio con quello sopravvenuto greco-macedone; processo che ebbe come punto di partenza proprio quella grandiosa città che Alessandro aveva fondato non molti anni prima in una posizione strategica della costa mediterranea, sul luogo dove sorgeva l’antico villaggio di Rhacotis, non distante dal delta del Nilo: Alessandria. E, nell’ambito di questo processo, si presentò a Tolomeo la necessità, anche politica, di plasmare una comune idea religiosa di fondo che fosse ugualmente accettata ed accettabile sia dall’elemento indigeno che dai dominatori Greco-Macedoni, innanzitutto perché da parte di questi ultimi vi era la necessità di guadagnarsi la benevolenza degli Egiziani, i quali, profondamente attaccati alle loro credenze, non avrebbero in alcun modo tollerato l’imposizione di Divinità straniere, ma anche e soprattutto perché i Greci stessi non esitavano a riconoscere il valore e l’elevatezza della religione e della sapienza dell’Egitto.

Agli occhi di Tolomeo, la linea religiosa da adottare affinché divenisse simbolo e consacrazione di un’unione tra Greco-Macedoni ed Egiziani non poteva essere di colorito troppo “locale”, si fosse pure trattato di inserire in un nuovo Pantheon Divinità quali Amon di Tebe o Rha di Heliopolis. Inoltre, la scelta o l’eventuale predilezione di una Divinità solare avrebbe troppo richiamato alla memoria del clero locale la folle, blasfema ed eretica politica amarniana di Akhenaton. Occorreva invece focalizzare l’attenzione sul culto di Divinità “popolari”, che in tutti i distretti dell’Egitto incontrassero rispetto e venerazione, e queste Divinità non potevano che essere Osiride e Iside, le uniche in cui si compendiavano di fatto tutta la religiosità e la spiritualità egiziane.

A contribuire ad una certa assimilazione nella mentalità popolare, prevalentemente a livello profano e indubbiamente in contesti ben distinti e distanti dall’ambito iniziatico Eleusino, fra le figure di Iside e Demetra, è stato senz’altro il fatto che durante l’epoca tolemaica, parallelamente all’introduzione del culto di Serapide di cui abbiamo detto, la figura della sorella-sposa di Osiride abbia ricevuto, proprio sulla spinta di questa rivoluzione religiosa di Tolomeo, un’enorme enfatizzazione che ne ha fatto la Divinità in assoluto più popolare e più venerata dell’Egitto.

Risulta molto significativo il fatto che, come ci confermano varie fonti, fra cui principalmente Tacito[7], il principale consigliere di Tolomeo (e sicuramente il vero regista) in questa grande operazione di rinnovamento religioso sia stato il Pritan degli Hierofanti di Eleusi, l’Eumolpide Timoteo. In lui Tolomeo, che come già ho detto si era iniziato ai Misteri Eleusi, riponeva sicuramente la massima fiducia. E sarà lo stesso Timoteo, massima guida spirituale dell’Eleusinità di quel tempo, pochi anni dopo, su richiesta dello stesso Tolomeo, a istituire anche ad Alessandria d’Egitto i Sacri Misteri, con l’apertura di un Santuario direttamente dipendente da quello Madre di Eleusi e presiedendo solennemente di persona ai Riti e alle Cerimonie. Dovrebbero quindi sciacquarsi la bocca quegli storici che ancora sostengono che vi fosse, nella mentalità ellenica del tempo, una qualche forma di sudditanza nei confronti della religiosità egiziana, quando in realtà era da Eleusi che si stavano decidendo e definendo le sorti di quest’ultima.

È a mio parere da escludere, nelle intenzioni del Pritan Timoteo, la volontà di dare vita ad una mera politica sincretistica fra le Divinità delle due diverse tradizioni. Gli Eleusini, infatti, discostandosi in questo dalla menta-lità “greca” comune e popolare, hanno sempre aborrito i facili sincretismi e le forzature nell’assimilazione delle Divinità fra diverse culture e tradizioni. È molto più probabile, infatti, che Timoteo, e con lui i vertici del clero eleusino dell’epoca, ravvisasse in questo suo coinvolgimento da parte di Tolomeo soprattutto l’opportunità di estendere all’Egitto il messaggio soterico e di redenzione delle Due Dee, la Madre e la Figlia, e prova ne è il fatto che, a prescindere da un’evidente ellenizzazione e, se vogliamo, “eleusinizzazione” del mito, del culto e della ritualità di Iside e Osiride determinata dalla riforma religiosa tolemaica[8], la celebrazione dei Sacri Misteri Eleusini introdotta ad Alessandria, e le connesse pratiche di iniziazione e i percorsi eruditivi delle Scuole del nuovo Santuario, si mantennero sempre ben distinti, separati e riconoscibili dalle pratiche e dagli uffici del culto misterico di Iside e Osiride. Così, mentre in questo Egitto avviatosi ormai ad una progressiva ellenizzazione si diffondevano sempre più (non solo fra i grecofoni, ma anche presso vari strati della società egiziana) e venivano ufficialmente istituzionalizzati ad Alessandria i Misteri Eleusini, da quella stessa terra, parallelamente, si diffondeva con rapidità in tutto il mondo greco e nei dominî di Roma un culto misterico incentrato sulle figure di Iside e Osiride; un culto misterico sviluppatosi sul modello di quelli ellenici e vicino-orientali, in cui la figura di Iside appariva assai distante da quella delineata oltre 2.500 anni prima nei testi delle piramidi di Saqqara, al tempo della Vª e VIª Dinastia, e molto più vicina ai canoni ellenici.

Sposa fedele, madre sollecita, una Dea la cui fecondità non appariva selvaggiamente esuberante come nel caso, ad esempio, della Grande Madre anatolica Cibele, bensì disciplinata dai doveri e dalle contingenze della realtà sociale egiziana, in questa fase Iside apparve sempre più agli occhi dei suoi fedeli anche come meticolosa legislatrice e benefattrice del suo popolo e della sua terra, elementi questi che hanno ulteriormente portato tanto i moderni interpreti profani del suo culto e dei suoi miti quanto molti scrittori di età ellenistica e romana imperiale ad associarla alla dolce e materna, ma al tempo stesso rigorosa e determinata Demetra, istitutrice dei Misteri Eleusini; Demetra la Madre di Kore, Demetra “la Cercatrice”, che, come abbiamo visto, era impropriamente a livello popolare e profano associata alla natura, alla fertilità e all’agricoltura, ma anche la Demetra tesmofora, la legislatrice, la dispensatrice dei più corretti ordinamenti per il genere umano.

Questo sincretismo Iside-Demetra è stato esemplarmente rappresentato nel II° secolo da Lucio Apuleio nelle Metamorfosi, opera conosciuta anche con il titolo L’Asino d’Oro (Asinus Aureus), un vero e proprio testo iniziatico oltre ad essere l’unico romanzo antico in Latino pervenutoci integralmente.

 

Dettaglio del Papiro Greenfield (X° secolo a.C.), contenente il Libro dei Morti di Nesitanebisheru, figlia del sommo Sacerdote di Amon a Tebe, raffigurante i genitori di Iside e Osiride, la Dea Nut (il cielo) e il Dio Geb (la terra), separati da Shu, Dio dell’aria e del soffio vitale, su ordine di Atum, il Dio creatore
(Londra, British Museum)

Per mezzo di simbolismi e allegorie ben dosati in una narrazione non certo priva di trasporto, l’autore ci illustra l’esperienza iniziatica isiaca, attraverso la vicenda del protagonista, tale Lucio di Corinto, trasformato in un asino dall’incantesimo di una maga della Tessaglia e poi risorto a condizione umana grazie al provvidenziale intervento salvifico della Dea, una simbolica morte e rinascita, attraverso l’Iniziazione e il contatto divino. Le parole con le quali Apuleio descrive il Rito dell’Iniziazione risultano però volutamente sibilline. L’autore dimostra in questo modo la sua appartenenza ad un contesto iniziatico isiaco, ma non si spinge troppo oltre nella narrazione, in evidente segno di rispetto del voto di silenzio prestato: «Io ho raggiunto il confine della morte e, oltrepassato il limitare di Proserpina, ho navigato attraverso tutti gli elementi. Nel cuore della notte ho visto il Sole rifulgere di candida luce e mi sono appressato agli Dei Superi ed Inferi, adorandoli da vicino»[9].

Apuleio, cives romano di famiglia berbera nato a Madaura, nell’attuale Algeria, attorno al 125 d.C., definito dallo storico delle religioni Nicola Turchi «una delle figure più enigmatiche della letteratura latina»[10], fu effettivamente un personaggio complesso e controverso e sotto molti aspetti ancora oscuro ed insondato: retore, filosofo, medico, mago, sacerdote, fu soprattutto un grande Iniziato, tanto che di lui si diceva che fosse iniziato a tutti i Misteri. Ma fra gli scrittori di quel tempo, dobbiamo principalmente a Plutarco di Cheronea, nato una settantina d’anni prima di Apuleio, se l’assimilazione Iside-Demetra toccò forse il suo apice. Plutarco, prolifico autore e al contempo anch’egli grande Iniziato, dopo aver ricevuto il sale della vita a Eleusi, si iniziò anche ai Misteri di Iside e Osiride, scalandone i più alti gradi. E a questo culto misterico, che tanto aveva ripreso, se vogliamo anche in maniera illegittima ed impropria, dal bagaglio culturale, esoterico e iniziatico dei Misteri Eleusini, egli rimase sempre intimamente legato, trasportandone in numerose sue opere i fondamenti spirituali e gli insegnamenti (ovviamente nei limiti di quanto poteva essere comunicato o trasmesso a un lettore potenzialmente anche profano).

È nel sua trattato De Iside et Osiride (Περὶ Ἴσιδος καὶ Ὀσίριδος) che Plutarco si addentra (sempre nei limiti del consentito) in profonde disquisizioni teologiche riguardo alla Dea e al suo divino fratello-sposo Osiride. Particolarmente emblematica, suggestiva e significativa è l’epigrafe, menzionata da Plutarco, che si trovava su una statua di Iside a Sais, nel Basso Egitto: «Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio velo»[11].

Degli ottanta capitoli di cui l’opera plutarchea si compone, otto sono interamente dedicati ad una ricerca interpretativa del mito di Iside e Osiride, mito però fortemente rivisitato da Plutarco, come risulterà evidente ai lettori più attenti nella sintesi che più avanti riporterò, in chiave decisamente ellenica. Plutarco visitò l’Egitto, come prima di lui avevano fatto molti illustri Filosofi ed Iniziati ellenici come Solone, Platone, Talete, Eudosso, Pitagora ed Erodoto, e lo fece anch’egli con l’animo del Filosofo e dell’Iniziato, del Sacerdote e del Teologo, tutte qualifiche che del resto gli competevano, ma non riuscì a liberarsi dalla maledetta trappola del sincretismo, da quell’ansia, prettamente greca, di voler a tutti i costi assimilare gli Dei dell’Ellade a quelli dell’Egitto. Egli, interpretando il mito attraverso i propri parametri culturali, intendendo idealmente far bagnare le pendici dell’Olimpo dalle sacre acque del Nilo, lo snatura, lo deforma, lo priva della sua anima e della sua più originaria essenza, lo piega alle sue proprie convinzioni, al proprio retaggio e al proprio bagaglio culturale. E quella che emerge dalla sua narrazione non è più (o meglio, non è più soltanto) la Iside della Grande Enneade, figlia Di Nut e Geb e sorella di Nephthys, Seth e Osiride, mirabilmente descritta dagli antichi Testi delle Piramidi: è di fatto una Dea con nuove vesti, un’incarnazione della massima espressione del misticismo egizio rivestita da abiti ellenici e parlante Greco, pensata ad uso e consumo di quello spiritualismo scaturito dal melting pot alessandrino, in un Egitto ormai non solo più ellenizzato, ma anche romanizzato. La Iside descrittaci e narrataci da Plutarco, come vedremo, è di fatto la protagonista di quel culto misterico praticato dallo stesso scrittore, Filosofo ed Iniziato di Cheronea, che, sorto e generato nell’Alessandria tolemaica sul modello dei Misteri Eleusini, arriverà a diffondersi in tutte le province dell’Impero di Roma; una Dea adesso molto più vicina e somigliante a Demetra che al prototipo di Divinità femminile dell’Egitto faraonico.

È stato scritto alcuni decenni fa da Vincenzo Cilento che «Plutarco, donando il suo spirito ellenico alla interpretazione dell’Egitto, paga il debito che, a suo dire, i padri della Grecia avevan contratto con l’Egitto, attingendo di là i primordi della sua sapienza»[12]. Questa poteva essere – beninteso in tutta buona fede – anche l’intenzione di Plutarco, ma si tratta di un madornale errore di fondo scaturito, come già ho detto, dalla presunta superiorità dell’Egitto e delle sue tradizioni religiose e sapientali sul mondo ellenico. Per quanto sia riscontrabile in molti autori ellenici, soprattutto a partire dal IV° secolo a.C., una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della civiltà egiziana e delle sue tradizioni religiose, c’è assolutamente da ribadire che la civiltà greca, nello specifico la sua componente originaria ed arcaica, di derivazione minoico-lelegica, non deve niente alla terra bagnata dal Nilo in quanto a fondamenti e insegnamenti religiosi.

Non mi si fraintenda. Qui nessuno vuole mettere in dubbio l’antichità e lo splendore della civiltà faraonica e delle sue istituzioni religiose, ma occorre sfatare una volta per tutte il falso mito che vorrebbe, nell’ambito del Mediterraneo, tutte le diverse tradizioni fare capo a quella egizia. Fino almeno al V° secolo a.C., in ambito ellenico, non si riscontra alcuna “sudditanza” psicologica nei confronti di un Egitto che veniva visto, semmai, come utile partner commerciale, ma non certo come fonte di ogni sapienza e saggezza.

 

Egitto: Tetradracma d’argento di Tolomeo I° Sotere

Non si possono negare antichi scambi culturali, oltre che commerciali, fra l’Egitto faraonico e la civiltà minoica e le sue derivazioni cicladico-anatoliche ed elleniche. Del resto è documentato che la civiltà minoica intratteneva relazioni commerciali e politiche con tutte le principali potenze dell’Età del Bronzo ed è attestato che le navi della sua possente flotta veleggiavano non solo in ogni angolo del Mediterraneo, ma si spingevano anche assai più lontano, varcando abitualmente le Colonne d’Ercole e dirigendosi fino in America Settentrionale (è attestata e documentata da recenti scoperte archeologiche la presenza di numerosi pozzi minerari minoico-cretesi nel Michigan già attivi almeno dal 2450 a.C., da cui veniva estratta buona parte del rame utilizzato in Europa). Ma in ambito religioso i Minoici, forti delle proprie tradizioni, non amavano le contaminazioni ed i sincretismi, facendo sì, nel pieno rispetto della religiosità dei popoli con cui intrattenevano relazioni amichevoli, che le rispettive tradizioni e convinzioni restassero sempre sostanzialmente distinte. Del resto, ogni popolo dell’antichità era fiero e geloso delle proprie specifiche tradizioni religiose, dei propri miti e delle proprie Divinità, ed era molto meno avvezzo alla contaminazioni e ai sincretismi di quanto si possa oggi immaginare, e soprattutto di quanto lo fossero certi Greci di età ellenistica e romana imperiale. La religione minoica, improntata sull’antico culto titanico e ampiamente diffusa, oltre che a Creta, in tutta l’area dell’Egeo, sulle coste anatoliche, dalla Caria alla Misia, e nel Peloponneso e nell’intera Grecia continentale fino a tutto il XII° secolo a.C., era inoltre da millenni già strutturata e consolidata. E stiamo parlando di quella religione da cui, all’indomani della Guerra di Troia, sorgerà l’Eleusinità con i suoi Riti e i suoi Misteri.

L’insano atteggiamento di sudditanza psicologica nei confronti dell’Egitto che è ravvisabile in alcuni autori di epoca tardo-antica e la smania sincretistica che caratterizza alcuni loro scritti si svilupparono nel mondo greco soltanto in età ellenistica, toccando il suo apice in avanzata età romana imperiale.

Per meglio far comprendere la natura sincretistica (e a tratti anche caotica) del testo plutarcheo, vale la pena riportarne per intero il dodicesimo capitolo, in cui l’autore si sofferma sulla genealogia di Iside, Osiride, Arueris, Tifone e Nephthys:

«Si racconta che quando Rea si unì a Crono di nascosto, il Sole, che se ne accorse e lanciò contro di lei la maledizione di non poter generare figli né in un alcun mese né in un alcun anno. Ma Hermes, innamoratosi della Dea, si unì anch’egli a Lei e, giocando a dadi con la luna, riuscì a vincerle la settantesima parte di ogni lunazione: riunendo tutte quelle settantesime parti riuscì a mettere insieme cinque giorni, che aggiunse ai trecentosessanta dell’anno. Anche ai nostri giorni gli Egiziani li chiamano questi giorni “aggiunti” e li festeggiano come genetliaco degli Dei.

Nel primo di questi giorni nacque Osiride, e insieme a lui uscì dal ventre della madre una voce che diceva: «Ecco, il signore di tutte le cose viene alla luce». Alcuni, poi, raccontano che una certa Pamila di Tebe, andando ad attingere dell’acqua, udisse una voce provenire dal tempio di Zeus, che le ordinava di proclamare che il grande Re benefattore Osiride era nato. Per questa ragione Crono affidò a lei il compito di allevare Osiride. In seguito venne celebrata in onore di Pamila la festa detta delle Pamilie, simile a quella delle Falloforie.

Il secondo giorno nacque Arueris, che alcuni chiamano Apollo e altri invece Horos il Vecchio.

Il terzo giorno nacque Tifone, ma la sua nascita non avvenne nel momento dovuto e nemmeno per via naturale: con un colpo squarciò il fianco della madre e saltò fuori.

Il quarto giorno nacque Iside, nella stagione delle piogge, e il quinto giorno nacque Neftys, che chiamano sia Fine sia Afrodite, da alcuni anche detta Nike (Vittoria).

Osiride nacque dal Sole, come anche Arueris; Iside da Hermes, Neftys e Tifone da Crono: per questo il terzo dei giorni aggiunti era considerato nefasto, e i Re non si occupavano degli affari pubblici e non curavano la propria persona fino al calar della notte.

Dicono poi che Neftys sposò Tifone e che Iside e Osiride, innamoratisi fra loro, si unissero nell’oscurità del grembo materno ancor prima di nascere, e alcuni sostengono che Arueris fosse il frutto di questa unione, e fu chiamato Horos il vecchio dagli Egiziani, e Apollo dai Greci»[13].

Il testo poi prosegue con Osiride che si assiede sul trono d’Egitto, beneficando il paese, sollevando gli uomini dalla vita incivile, promulgando leggi e insegnando loro l’agricoltura e il rispetto per gli Dei, persuadendoli con la dolcezza della ragione e con le arti della musica e della parola piuttosto che con la forza delle armi. Ha così inizio, secondo il mito, una fase di grande splendore e prosperità per la terra bagnata dal Nilo, una fase idilliaca, una sorta di Età dell’Oro in cui gli esseri umani vivono in armonia con gli Dei, apprendendo da Osiride le regole del vivere civile e di ogni saggezza. Ma il malvagio Tifone (Seth), invidioso, trama nell’ombra contro il fratello. Raccolti settantadue congiurati e ottenuta la collaborazione di una regina dell’Etiopia menzionata come Aso, egli prende di nascosto le misure del corpo del fratello e, servendosi di esse, fa costruire una splendida cassa una splendida cassa. Invita poi tutti gli Dei a un solenne banchetto, al termine del quale i convitati sono pregati di entrare nella cassa, promessa da Tifone a colui che vi sarà perfettamente contenuto. Non appena Osiride, ignaro del tranello, entra nella cassa, il coperchio di questa viene fatto immediatamente chiudere e sigillare col piombo dal fratello, aiutato dai congiurati. La cassa sarà poi gettata nel Nilo, le cui acque la trasporteranno verso il mare. E tutto questo avvenne il giorno 17 del mese di Athyr, mentre il cielo attraversava lo Scorpione, nel ventottesimo anno di regno di Osiride sull’Egitto.

Iside, informata del delitto, si veste a lutto e corre disperatamente alla ricerca del corpo dello sposo. Vaga senza meta per giorni, non sapendo esattamente dove cercare e chiedendo notizie a tutti quelli che incontra sul suo cammino. Saranno dei bambini a rivelarLe che la cassa contenente Osiride, giunta alle foci del Nilo, è stata spinta verso il mare aperto. Viene infine a sapere che, trasportata dalle onde del mare, essa si è fermata a Byblos, in Fenicia, dove un albero è miracolosamente cresciuto tanto da proteggerla e includerla nel proprio tronco. la Dea si mette immediatamente in viaggio verso la terra dei cedri. Giuntavi, viene a sapere che l’albero che serba in sé la cassa con le spoglie del marito non è più al suo posto, e che il suo tronco si trova ora nella casa del Re della città, Malcandro, dove è stato impiegato come sostegno del tetto. Iside si siede allora, piangendo e disperandosi e senza parlare con nessuno, presso una fonte, dove incontra le schiave della Regina Astarte che vi si sono recate per attingere acqua. Dopo essere entrata in confidenza con loro ed avendo intrecciato le loro chiome, le avvolge con un soavissimo profumo che emanava dal suo stesso corpo. La regina, saputo ciò, chiede di conoscere la straniera, accettandola poi presso la reggia come nutrice del principino.

Iside allevava il bambino dandogli da succhiare la punta del dito al posto del seno, e di notte immergeva nelle fiamme la parte mortale del suo corpo, per conferirgli l’immortalità. Si trasforma poi in rondine, volando intorno alla colonna e gemendo. Ma la Regina, che una notte sta osservando la scena, quando vede il bambino in preda alle fiamme si mette a gridare, interrompendo l’azione della Dea e privando così il figlio del dono dell’immortalità. Iside allora si rivela nella sua vera natura e chiede che le venga data la colonna del tetto. Ottenutala, sfronda i rami di erica che l’avvolgono, la aprì e ne estrae la preziosa cassa. Affida poi la colonna al Sovrano, dopo averla cosparsa di unguento profumato e avvolta in una pezza di lino.

 

Statua marmorea di epoca romana imperiale rinvenuta nella Villa Adriana di Tivoli,raffigurante una Dea Iside ormai fortemente romanizzata
(Roma, Musei Capitolini)

Ci riferisce Plutarco che, ancora ai suoi tempi, gli abitanti di Byblos veneravano questo tronco, custodito come reliquia all’interno di un Tempio eretto in onore della Dea.

La narrazione prosegue con Iside che si getta sulla cassa, gridando talmente forte che il bambino che stava allevando, il più giovane dei figli del Re, resta ucciso dalle sue stesse grida della Dea. In seguito, caricata su una nave la cassa, si imbarca per fare ritorno in Egitto, scortata dal figlio maggiore di Malcandro e Astarte.

Giunta in un luogo solitario, Iside toglie i sigilli dalla cassa e, apertala, bacia tra le lacrime il volto dell’amato fratello-sposo, mentre il figlio del Re di Byblos, che incautamente si era avvicinato spinto dalla curiosità, fulminato dallo sguardo della Dea cade a terra morto all’istante.

Avvenuto ciò, la Dea prosegue il suo viaggio verso l’Egitto. Dovendosi recare a Butis, sul delta del Nilo, per rincontrare il figlio Horus, dove la Dea Uadjet[14] lo ha accudito ed allevato durante la sua assenza, Iside depone la cassa con il corpo di Osiride in un luogo nascosto, proponendosi di tornare poi a recuperarla. Ma Seth, mentre andava a caccia di notte, la trovò e, riconosciuto il corpo del fratello, lo fece in quattordici pezzi, che poi disperse. Venuta a sapere l’accaduto, Iside si mette immediatamente alla ricerca dei pezzi e, attraversando le paludi del delta con una zattera di papiro, riesce a recuperarli a dare ad essi degna sepoltura. Ed è questa la ragione, secondo Plutarco, per cui in Egitto veniva attestata la presenza di numerose tombe di Osiride.

L’unica parte del corpo del Dio che Iside non riesce a ritrovare è il membro virile, poiché era stato gettato per primo da Seth nel fiume, dove era stato mangiato dai pesci, ma la Dea riesce comunque a sostituirlo con uno artificiale.

Più avanti, nel testo, troviamo infine Horus, figlio di Iside e Osiride, che, divenuto adulto, con l’aiuto e la necessaria preparazione fornitagli dal padre ritornato dall’oltretomba, sfida il malvagio Seth e lo vince. Come riporta Plutarco, la battaglia durò molti giorni e, al termine di essa, Seth viene consegnato da Horus a Iside in catene. Ma la Dea non solo non lo mette a morte, ma decide addirittura di lasciarlo libero. «Horus – scrive Plutarco – non seppe accettare questa decisione: alzò le mani sulla madre e le strappò dalla testa la corona regale. Allora Hermes pose sul suo capo un elmo a forma di testa di bue. Horos fu accusato di illegittimità da Tifone, ma Hermes sostenne i diritti del giovane e gli Dei sentenziarono in suo favore. Tifone, poi, fu battuto in altre due battaglie. Iside si unì a Osiride anche dopo la sua morte, e partorì un figlio prematuro e rachitico negli arti inferiori, Arpocrate»[15].

Molto interessante risulta essere anche questa interpretazione dal taglio sorprendentemente “evemeristico” che Plutarco ci fornisce riguardo ai fatti narrati:

«Quando Iside ebbe ritrovato Osiride e fatto diventar grande Horus, che si irrobustiva sempre più grazie alle esalazioni, ai vapori e alle nuvole, Tifone fu così sconfitto, ma non certo annientato. Questo perché la Dea, Signora della terra, non volle annullare completamente il principio opposto all’umidità, ma intese unicamente ridurlo e poi lasciarlo di nuovo libero, per mantenere intatta la composizione dell’atmosfera. E infatti il cosmo non può essere perfetto se viene a mancare in esso l’elemento igneo. Anche se non è espressamente ammesso dalla religione egiziana, non si può tuttavia respingere la validità del racconto secondo cui Tifone all’inizio aveva il predominio sul regno di Osiride. L’Egitto, infatti, era un mare: per questo nelle miniere e sulle montagne si trovano ancora delle conchiglie. Tutte le sorgenti, poi, e tutti i pozzi, che sono tanti, hanno ancora acqua amara e salata, come se lì si fosse raccolto un vecchio residuo del mare che c’era prima. Col tempo Horus ebbe la meglio su Tifone, vale a dire che il Nilo, grazie al benefico avvento delle piogge, riuscì a respingere il mare, a mettere allo scoperto la pianura e a riempirla di depositi alluvionali»[16].

Interessante anche rilevare quanto riporta Plutarco nel quarantaduesimo capitolo:

«La morte di Osiride corrisponde, secondo il mito egiziano, al diciassette del mese, quando cioè il plenilunio si compie e risulta perfettamente visibile. Per tale ragione i Pitagorici chiamano “ostacolo” questo giorno, e hanno in odio il diciassette più di ogni altro numero. Esso infatti cade fra il sedici, che è un quadrato, e il diciotto, che è un rettangolo, i soli fra i numeri a formare figure piane che abbiano il perimetro uguale all’area; il diciassette si pone come un ostacolo fra di loro, e li separa uno dall’altro, e spezza la proporzione di uno e un ottavo in intervalli diseguali. Gli anni della vita di Osiride, o forse, a seconda delle interpretazioni, quelli del suo regno, furono ventotto: tale infatti è il numero delle lunazioni e anche quello delle giornate necessarie perché il ciclo lunare si compia. Il tronco che viene tagliato nel rito detto “Sepoltura di Osiride” serve a costruire un’urna funeraria a forma di falce di luna: questo perché la Luna, quando si avvicina al Sole, prende l’aspetto di una falce fino a diventare invisibile. Le quattordici parti in cui Osiride viene smembrato, invece, alludono ai giorni in cui l’astro scompare, dal plenilunio fino al novilunio. Il giorno in cui la Luna ricompare, dopo aver superato finalmente il Sole ed essere sfuggita ai suoi raggi, essi lo chiamano “Bene senza fine”. In effetti Osiride è un benefattore, e tra le varie qualità a cui il suo nome allude, non ultima è quella forza benefica e produttiva che gli viene riconosciuta. L’altro nome del Dio, Onfis, secondo Ermeo va interpretato appunto come “benefattore”»[17].

A prescindere da quanto sin qui osservato e riportato, ai lettori particolarmente attenti ed eruditi e in possesso delle corrette chiavi di lettura, o comunque non digiuni di elementi mitologici e teologici dell’Eleusinità, non saranno certo sfuggiti i numerosi punti di contatto e le similitudini fra il testo di Plutarco e l’Inno Omerico a Demetra. Le rispettive narrazioni iniziano, infatti, con la scomparsa di una figura cara e con la disperata ricerca di questa da parte della Divinità in un viatico di dolore che dura varî giorni. Nel caso di Demetra, come sappiamo, protagonista della scomparsa è la figlia Kore, rapita da Ade per ordine di Zeus, mentre nel caso di Iside lo scomparso è il fratello-sposo Osiride. Entrambe le Dee, sia Demetra che Iside, cercano disperatamente per giorni la persona cara scomparsa, fino a che vengono a conoscenza della verità, e entrambe, assunta forma umana, intraprendono un viaggio per mare, la prima diretta a Eleusi, la seconda a Byblos. E da qui in poi le analogie fra le narrazioni si fanno sempre più marcate: entrambe le Dee, arrivate a destinazione, si siedono affrante e disperate presso una fonte, dove incontrano quattro fanciulle lì giunte per attingere acqua: Demetra le quattro figlie del Re di Eleusi Celeo e della Regina Metanira, Iside le quattro schiave del Re di Byblos Malcandro e della Regina Astarte. In entrambe le narrazioni le Dee vengono invitate dalle quattro ragazze a seguirle al palazzo reale, dove vengono assunte come nutrici del principino. Ed entrambe, svolgendo la mansione loro affidata, operano segretamente per conferire al bambino il dono dell’immortalità, immergendolo durante la notte in un sacro fuoco. Entrambe vengono poi sorprese dalla Regina (Metanira nell’Inno Omerico a Demetra e Astarte nella narrazione plutarchea) durante tale atto, e in entrambe i casi l’operazione viene interrotta dalle grida di terrore delle rispettive madri. Infine, in entrambe le narrazioni, le Dee si manifestano nella loro reale natura e identità, esprimendo la propria volontà: Demetra ordina che le venga edificato un Tempio, Iside chiede che le venga consegnata la cassa contenente il corpo di Osiride, contenuta come abbiamo visto nella colonna lignea che sorregge il tetto del palazzo.

Da qui in poi le narrazioni tornano a divergere e a rientrare nel loro “alveo”, anche se mantengono un altro elemento di fondo del resto comune a tutti i culti di carattere misterico dell’area mediterranea e vicino-orientale: quello della morte e della rinascita. Sia nello hieros-logos Eleusino che in quello isiaco narratoci da Plutarco, infatti, le rispettive figure scomparse fanno ritorno dall’aldilà, ma soltanto in maniera parziale, restando in parte legate e vincolate al regno dei morti.

Ricostruzione dell’Iseo Campense di Roma come si presentava nel 95 d.C. (da una stampa del 1917)

Il testo plutarcheo rappresenta emblematicamente non una derivazione della vicenda di Demetra da quella di Iside, come erroneamente hanno in maniera superficiale ipotizzato molti storici delle religioni, ma l’esatto opposto. Ci troviamo infatti di fronte ad un palese esempio di quella “eleusinizzazione” del mito di Iside e Osiride a cui poc’anzi ho fatto riferimento. “Eleusinizzazione” determinatasi proprio in età ellenistica e frutto delle operazioni di rivoluzione religiosa attuate ad Alessandria da Tolomeo I° (Iniziato ai Misteri Eleusini), con la “regia” ed i consigli del Pritan degli Hierofanti di Eleusi Timoteo. Il De Iside et Osiride, ben lungi dall’essere frutto della fantasia di Plutarco, rispecchia fedelmente un modello di hieros-logos adottato in ambiente alessandrino per il culto misterico isiaco, al quale anche il grande erudito di Cheronea si iniziò. Uno hieros-logos frutto della riforma religiosa tolemaica che risulta assai distante dai miti di Iside e Osiride più antichi, come ad esempio quelli riportati nei Testi delle Piramidi del Tardo Antico Regno e del Primo Periodo Intermedio dell’Egitto (2375 – 2345 a.C.), con l’inserimento – talvolta anche improprio e decisamente fuori contesto – di particolari pescati dallo hieros-logos Eleusino. Particolari, sì, dall’alto valore simbolico ed esoterico se letti nel loro contesto originario, ma il cui inserimento nella vicenda isiaca poteva avere solo ed esclusivamente la funzione di “internazionalizzare” il culto e renderlo così fruibile alle masse greche o grecofone.

L’incontro fra Demetra e le quattro figlie di Celeo e Metanira presso il sacro pozzo Kallichoron ha un preciso significato che va oltre il mero invito a corte che ne deriva, poiché – come meglio vedremo in un altro capitolo del volume[18] – tali fanciulle sono destinate a divenire le mogli di quattro fra i primi discepoli della Dea e fondatori di altrettante Tribù e Coorti Primarie dell’Eleusinità Madre. Anche la volontà, da parte di Demetra, di conferire a Demofoonte, il figlio dei Sovrani di Eleusi, l’immortalità e l’invincibilità mediante l’immersione notturna in un fuoco sacro, ha un preciso scopo. Demetra, secondo gli insegnamenti delle Scuole Misteriche Eleusine, aveva previsto l’imminente Guerra di Troia e, se l’operazione magica di conferimento dell’immortalità e dell’invincibilità al fanciullo non fosse stata bruscamente interrotta dalle grida e dall’intervento della madre e fosse invece andata a buon fine, Demofoonte, una volta adulto, sarebbe stato il prescelto in grado di sconfiggere gli Achei, ribaltando così le sorti del conflitto in favore dei Troiani. Tale operazione, invece, praticata da Iside al figlio dei Sovrani di Byblos, non trova alcun apparente significato. E potremmo continuare a lungo, elencando esempi analogici di particolari che nello hieros-logos Eleusino hanno un senso logico e compiuto, mentre non lo trovano in questa versione ellenizzata del mito isiaco.

Ma ormai, le porte del sincretismo religioso erano state spalancate e questo nuovo (o, se vogliamo, rinnovato) culto misterico si stava diffondendo a macchia d’olio ben oltre i confini dell’Egitto. Del resto, l’adozione della lingua Greca stabilita da Tolomeo e implementata dai suoi successori per le pratiche e le liturgie del culto, per quanto potrebbe apparire come un elemento secondario, si dimostrò un fattore determinante per la sua diffusione in tutto il Mediterraneo, permettendone l’accessibilità a milioni di persone, dalla Grecia all’Anatolia, dall’Algeria alla Siria, da Creta alla Sicilia e all’intera Italia Meridionale; in sostanza ovunque si parlasse o si comprendesse il Greco e i suoi numerosi dialetti.

Il papiro 1380 di Ossirinco, facente parte di una cospicua raccolta di testi e frammenti manoscritti databili tra il I° e il VI° secolo d.C. rinvenuti in un’antica discarica fra la fine del XIX° e gli inizi del XX° secolo in quella che fu la capitale del XIX° distretto dell’Alto Egitto, è emblematico del ruolo straordinario a cui era assurta Iside in ogni angolo del Mediterraneo. Il testo in oggetto, databile al tardo II° secolo e noto come Invocazione a Iside, è sicuramente un brano liturgico del culto misterico della Dea. Merita di essere qui riportato poiché è emblematico del livello di sincretismo religioso raggiunto in quegli anni:

«Io invoco Te, o Iside, che sei chiamata presso il Delta la Dispensatrice di Grazie, a Ermopoli la Bella di Forme e la Santa, a Naucratis la Senza Padre, la Gioiosa, la Salvatrice Onnipotente, la Grande, a Pefrem la Sovrana Iside, la Sovrana Vesta, la Signora di tutta la Terra, a Bubasti l’Elemento Primordiale, nell’Iseo di Sethroito la Salvatrice degli uomini, in Eraclea la Signora del Mare, a Pelusio la Ormeggiatrice, in Arabia la Grande Dea, a Roma la Guerriera, a Gaza la Patrona della Navigazione, presso i Traci e a Delo la Dea dai Molti Nomi, presso gli Indiani Maia, in Fenicia la Dea Sira, nel Ponto la Senza Macchia, nella Persia Anahita.

Guardiana e guida dei mari e Signora delle foci dei fiumi, o Signora Iside, la più grande delle Dee, il tuo primo nome è Sothis!

Tu conduci il Sole dall’Oriente all’Occidente e tutti gli Dei ne gioiscono. Allo spuntare delle stelle tutti gli abitanti della Terra indefessi Ti venerano, e gli animali sacri del Santuario di Osiride si rallegrano al Tuo nome!

Tu mandi la rovina a chi vuoi, ma ai rovinati dai grazia e tutte le cose purifichi. Ogni giorno hai Tu fissato per la gioia. Tu hai disposto i luoghi umidi e secchi di cui l’universo si compone. Tu hai ricondotto felicemente Tuo fratello Osiride pilotando da sola e degnamente seppellendolo. Tu hai stabilito i Tuoi Santuari in tutte le città, per sempre, e a tutti hai dettato le norme ed un ciclo annuale perfetto. Tu hai reso immortale il grande Osiride e a tutta la Terra hai insegnato i Sacri Riti (…)»[19].

Pompei: affresco del Tempio di Iside raffigurante la Dea mentre riceve Io a Canopo (I° secolo d.C.)

La straordinaria diffusione al di fuori della loro terra d’origine di questi rinnovati Misteri di Iside e Osiride, ormai fortemente ellenizzati nei contenuti, nella lingua della liturgia e nei numerosi richiami ai Misteri Eleusini su cui ci siamo poc’anzi soffermati, al di là delle esigenze politiche della dinastia Tolemaica e delle reali intenzioni del Pritan degli Hierofanti Timoteo, che in maniera determinante aiutò e assistette Tolomeo I° nella sua riforma religiosa, fu un segno evidente della loro straordinaria vitalità. Essi, compendiando molti aspetti tratti anche da altri culti misterici ellenici e vicino-orientali, seguirono le numerose rotte mercantili che, sciamando da Alessandria, andavano a toccare, uno dopo l’altro, tutti i grandi e piccoli porti del Mediterraneo. Così, in breve tempo, non vi fu porto, scalo o grande città, in Oriente e in Occidente, che non avesse almeno un Tempio o un Santuario isiaco. Cominciando dall’area elladica, vediamo infatti che il culto è presente al Pireo sin dal IV° secolo a.C. e ad Atene il primo Iseo viene edificato nel 270 a.C., in ringraziamento dell’aiuto prestato da Tolomeo Filadelfo alle polis della Grecia contro la minaccia macedone. Sorsero inoltre luoghi di culto isiaci a Cheronea e a Orcomeno, in Beozia, già nel 216 a.C. ed in tali località Iside e Serapide divennero simbolo dell’emancipazione degli schiavi che si iniziavano ai loro Misteri. E Delo, la “capitale” religiosa delle Cicladi, sacra alla Dea Titana Leto (che vi aveva partorito Febo e Artemide) e baluardo dell’Eleusinità, vide sorgere sul suo territorio uno dei più grandiosi Santuari isiaci del mondo antico.

È impensabile che il Pritan degli Hierofanti Timoteo, e con lui l’intero clero dell’Eleusinità, non avesse previsto una simile e rapida diffusione al di fuori dell’Egitto di quel culto misterico che tanto aveva contribuito, in sintonia con Tolomeo I°, a “ristrutturare” e ad “ellenizzare”. Un culto misterico che, diffondendosi un po’ ovunque nell’area mediterranea e, successivamente, anche nell’Europa continentale e nel Vicino Oriente, avrebbe potuto potenzialmente fare “concorrenza” ai Sacri Misteri delle Due Dee, vale a dire all’Eleusinità Madre, e alle sue diramazioni e forme collaterali “Figlia”, quali quella Orfica e Samotracense, erodendone, almeno a livello popolare, la base dei fedeli. Ma in realtà non vi fu alcuna forte concorrenzialità fra Misteri Eleusini e Misteri Isiaci, come non ve ne fu, del resto, fra l’Eleusinità Madre e le sue forme e derivazioni “Figlia”. La particolare spiritualità e la mentalità religiosa, come del resto la stessa forma mentis, delle popolazioni mediterranee dell’età ellenistica e romana, fondate su una Paideia improntata sulla Filosofia, sulla tolleranza e sulla naturale apertura a Tradizioni religiose affini alle proprie, faceva sì che molti fedeli ed Iniziati richiedessero di farsi iniziare anche ad altri culti misterici diversi, ma comunque affini al proprio, anche e soprattutto per espandere ed imple-mentare la propria erudizione, la propria conoscenza e per accrescere la propria via esperienziale di avvicinamento e di contatto con il Divino. Ne sono fulgido esempio i più grandi eruditi di quel tempo, dagli stessi Plutarco ed Apuleio fino ad arrivare a Vettio Agorio Pretestato e ad Imperatori come Adriano e Giuliano.

Sorge allora spontaneo chiedersi quale fu il senso più profondo ed il reale significato dell’operazione a cui si prestò il Pritan Timoteo nel suo ruolo di principale consigliere della riforma di Tolomeo.

A mio parere il reale intento della massima autorità e guida dell’Eleusinità andava ben oltre un disinteressato aiuto al suo fedelissimo Sovrano dell’Egitto e alla mera istituzionalizzazione, anche nella Terra del Nilo, dei Misteri Eleusini, con l’apertura del grandioso Santuario di Alessandria. Ritengo piuttosto, anche se non vi sono documenti ufficiali che lo attestino, che le intenzioni di Timoteo fossero proprio determinare la grande diffusione – che di fatto è poi avvenuta – di un culto misterico sostanzialmente ellenizzato ed in parte “eleusinizzato”, che si affiancasse senza troppi problemi ai culti Eleusini e che al contempo fosse capace di catalizzare consensi e proseliti in aree e in strati sociali non già coperti dall’Eleusinità, togliendoli ai culti di matrice olimpica e patriarcale, veri nemici ed avversari (ed unici, almeno fino all’avvento alla diffusione della superstitio cristiana), della religiosità titanica di cui l’Eleusinità era espressione.

Se la mia ipotesi è corretta, possiamo tranquillamente affermare che l’operazione fu un successo, perché il culto isiaco si diffuse ovunque con grande rapidità. Si attestò in Italia già dal 105 a.C., con l’edificazione degli splendidi Isei di Pompei e di Pozzuoli, in una regione, la Campania, in cui questo culto si radicò profondamente e dalla quale si diffuse poi a Roma, dove già verso l’80 a.C. è attestata una prima confraternita isiaca.

Il culto misterico greco-egizio, nella sua prima fase di espansione nei territori soggetti all’Urbe, dove attecchì soprattutto fra le masse popolari, non fu inizialmente visto di buon occhio dalle autorità della Repubblica, le quali emanarono addirittura alcune ordinanza di soppressione (nel 58, nel 54 e nel 50 a.C.); ordinanze però da intendersi più come atti formali che come vere azioni repressive, poiché non sussistevano più quelle ragioni, sia strategico-politiche che di sicurezza che avevano portato, nel 185 a.C., alla giusta repressione delle pratiche del culto dionisiaco. Infatti, dopo queste iniziali resistenze, non trovò di fatto più ostacoli alla sua diffusione e propagazione, divenendo in breve tempo uno dei culti misterici più capillarmente diffusi in tutte le provincie dell’Impero, secondo soltanto ai Misteri Eleusini, condividendo con essi, dopo l’avvento e l’imposizione del Cristianesimo, la terribile fase delle persecuzioni.

La colossale testa di Isis-Sothis-Demeter, un tempo collocata nel ginnasio di Villa Adriana a Tivoli, oggi nei Musei Vaticani

 

 

NEGOZIO

 

 

[1] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, I°.

[2] Anna Maria Corradini: Mysteria: i Misteri al femminile nella Sicilia antica. Fonti letterarie e archeologiche. Ed. Tipheret, Acireale-Roma 2011.

[3] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, V°, 69.

[4] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, I°, 29.

[5] Pausania: Periegesi della Grecia: I°, 2, 6.

[6] Apollodoro: Biblioteca, III°, 14, 6.

[7] Tacito, Storie, IV°, 83.

[8] Gli evidenti aspetti di ellenizzazione e di eleusinizzazione del culto misterico di Iside e Osiride sviluppatosi con Tolomeo e successivamente diffusosi in tutto il Mediterraneo saranno prese in esame nelle prossime pagine, con l’analisi del De Iside et Osiride di Plutarco.

[9] Lucio Apuleio: Le Metamorfosi.

[10] Nicola Turchi: Le Religioni dei Misteri nel mondo antico. Ed. Fratelli Melita, Genova 1987.

[11] Plutarco di Cheronea: De Iside et Osiride, IX°.

[12] Vincenzo Cilento (a cura di): Plutarco, diatriba isiaca e Dialoghi Delfici. Ed. Sansoni, Firenze 1962.

[13] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XII°.

[14] Uadjet, il cui nome significa letteralmente “del colore del papiro”, chiamata Buto o Butis dai Greci che la assimilarono alla Dea Titana Leto, è una Divinità antichissima il cui culto viene ritenuto originario di Per-Uadjet, sul delta del Nilo. Raffigurata con le sembianze di un cobra, con l’unificazione dei segni predinastici divenne la protettrice del Faraone e la personificazione del Basso Egitto, come la Dea Nekhbet, raffigurata con le sembianze di un avvoltoio, impersonificava l’Alto Egitto. Le due Dee, come personificazioni e patrone delle due parti della Nazione, venivano infatti ritratte spesso insieme.

A Uadjet veniva associato inoltre l’Ureo, simbolo della regalità a forma di serpente steso in posizione di sfida, pronto a sputare veleno su tutti i nemici del Sovrano o a incenerirli con il suo sguardo infuocato. Secondo varie tradizioni, a Udjet Iside avrebbe affidato il figlio Horus (secondo altre versioni, invece, sia Horus il Vecchio che Horus il Giovane), mentre era alla ricerca del corpo di Osiride, e la Dea vegliava su di lui sull’isola di Chemmis, situata in un grande lago nei pressi della città di Butis. Tale isola, coperta di palme e di altri alberi, affinché meglio potesse proteggere il figlio di Osiride dalla malvagità di Seth, venne resa dalla Dea fluttuante, un interessante parallelismo con l’isola egea di Delos, dove Leto partorì, secondo la Tradizione Eleusina, Febo e Artemide. Anche Delos, infatti, secondo la Tradizione, era un’isola fluttuante che venne poi ancorata al fondale marino.

[15] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XIX°

[16] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XL°.

[17] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XLII°

[18] Vedasi il capitolo Le Tribù e le Coorti Primarie di Eleusi.

[19] The Oxyrhynchus Papyri (edd. B.P. Grenfell – A.S. Hunt) XI (1915) n. 1380.

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Da Eleusi a Firenze – La Trasmissione di una Conoscenza Segreta

Fra i vari culti misterici dell’antichità, nessuno mai raggiunse una fama e al contempo una segretezza ed una impenetrabilità ad occhi profani pari a quella dei Misteri Eleusini. Tanto che è stato affermato dai più autorevoli studiosi che in essi poggiano le basi stesse della cultura e della tradizione occidentali. Se è corretto parlare di Misteri Eleusini, si dovrebbe – in senso più ampio – parlare di Eleusinità, per rendere l’idea della portata di una tradizione che ha saputo perpetuarsi in maniera ininterrotta dalla più remota antichità fino ai nostri giorni, attraversando indenne come un fiume carsico i secoli bui del Medio Evo, fino a riemergere in tutto il suo splendore nel Rinascimento. Prendendo atto delle limitazioni della saggistica sull’argomento e della totale mancanza in essa di una prospettiva esoterica ed iniziatica, Nicola Bizzi ha deciso di mettere mano a quest’opera, frutto di decenni di studi e di un particolare percorso personale. L’autore, infatti, oltre ad essere uno storico nella vita profana, appartiene per tradizione familiare e per esperienza iniziatica, alla tradizione misterica degli Eleusini Madre.

Approfondimento (dal precendente La Scienza di Atlantide)  + Estratto:
I Misteri Eleusini specie per spiecie // I Minoici in America e la Memoria di una Civiltà Perduta