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Alle origini della civiltà umana: Eleusi, Mesopotamia, Immortalità

Il Prof. Nicola Bizzi, fondatore e titolare delle Edizioni Aurora Boreale, è stato intervistato da Alessandra Gargano Mc Leod su Radio Ondaradio sul tema: Alle origini della civiltà umana: Eleusi, Mesopotamia, immortalità.

Qui il link al video: https://www.youtube.com/watch?v=Cu60LpFcnYQ

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La via di Eleusi: la riconquista delle radici della Tradizione Occidentale – di Francis William Hamilton

LA VIA DI ELEUSI: LA RICONQUISTA DELLE RADICI DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE

di Francis William Hamilton

 Prefazione al saggio di Nicola Bizzi La Via di Eleusi: il percorso di elevazione e i gradi dell’Iniziazione ai Misteri

Nicola Bizzi, un attento storico e un infaticabile ricercatore nel campo delle antiche tradizioni religiose dell’area mediterranea, ha fino ad oggi posto la propria firma a numerose e interessanti pubblicazioni, ma è soprattutto noto per essere l’autore di Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta, un’opera a dir poco monumentale e unica nel suo genere, il cui primo volume, uscito in Italia nel Novembre del 2017 e soltanto da pochi mesi tradotto in lingua Inglese, è divenuto in breve tempo un vero e proprio best seller, incontrando, anche ben oltre i confini italiani, una diffusione che sta andando oltre ogni aspettativa.

Ma Nicola Bizzi non è soltanto uno storico e uno scrittore. È anche – e soprattutto – un Iniziato a molteplici discipline esoteriche, uno stimato Libero Muratore e – aspetto questo ancor più considerevole – appartiene, sia per personale percorso iniziatico più che trentennale che per tradizione familiare, all’Ordine degli Eleusini Madre, una delle realtà iniziatiche più antiche, rispettate e impenetrabili dell’intero Occidente.

A partire dagli anni ’90 gli Eleusini Madre, per tutta una serie di ragioni che andrò a spiegare, hanno deciso di intraprendere, partendo proprio dall’Italia, una graduale politica di apertura al mondo profano. Si sono, in sostanza, pubblicamente palesati, rendendosi disponibili a un aperto confronto con altre realtà iniziatiche e mettendo a disposizione degli storici e degli studiosi parte del loro ingentissimo patrimonio culturale e documentaristico. E, contemporaneamente, attraverso una rete di proprie associazioni culturali, hanno dato inizio a cicli di pubbliche conferenze e alla pubblicazione di diversi libri. Un’operazione, quest’ultima, nell’alveo della quale si colloca anche la pubblicazione dei saggi di Nicola Bizzi, che dall’Ordine degli Eleusini Madre è stata autorizzata e legittimata.

Una simile decisione – che a quanto pare in ambito eleusino e misterico in genere non ha trovato unanimi consensi e condivisioni – non deve portare a facili fraintendimenti: gli Eleusini Madre non diffonderanno mai nel mondo profano i propri segreti iniziatici, non sveleranno mai a chi non è idoneo a recepirli i propri riti, i propri rituali. Chiunque crede o spera il contrario, sicuramente si illude o è in malafede. Come spiega bene Nicola Bizzi in un capitolo di questo libro, la Conoscenza esoterica ed iniziatica è per sua natura segreta, ma la segretezza non è finalizzata soltanto a preservare un qualcosa dai profani. Essa è finalizzata anche a preservare gli stessi profani (coloro che non sono stati iniziati e che non possiedono quindi le corrette chiavi di lettura per accedere a determinati insegnamenti e a determinate verità) da due fondamentali pericoli: la pazzia e la morte. Chiunque, infatti, si accosti ai Sacri Misteri senza essere pronto, corre entrambe i pericoli. Proprio per questo, come ci narra il grande Iniziato Virgilio nell’Eneide, i sacerdoti del bosco sacro dove si trovava la porta che dava accesso agli Inferi gridavano ai profani all’avvicinarsi di Proserpina: «Procul este, profani!» («Allontanatevi, profani!»).

Come nessuno, che non sia un vero Iniziato, può sopravvivere all’avvicinarsi di una Divinità, nessuno fra i non Iniziati potrebbe mantenere la propria lucidità mentale e non rischiare di scivolare nell’abis-so della follia venendo a conoscenza di certe verità che sconvolgerebbero la propria forma mentis e la propria visione profana delle cose e del mondo.

La politica di parziale apertura degli Eleusini Madre verso il modo profano, a detta dei diretti interessati, intende essere finalizzata soprattutto a fare chiarezza sulle tante disinformazioni e imprecisioni scritte riguardo ai Misteri Eleusini da storici delle religioni come Kerényi, Burkert, Macchioro e Clinton, ma soprattutto a controbattere le tesi deliranti portate avanti sui Misteri da personaggi come Robert Gordon-Wasson, Albert Hoffman e Carl Ruck, e per rispondere al proliferare, sulla scia di Aleister Crowley, di numerose sedicenti organizzazioni “eleusine” (soprattutto qui negli Stati Uniti) che in realtà praticano aberranti dottrine New Age senza né capo né coda che con l’autentica Eleusinità niente hanno a che spartire.

Queste, ovviamente, le motivazioni “ufficiali” di tale parziale apertura. Quelle “ufficiose”, in realtà, a mio parere sono ben altre e ritengo che siano basate sulla considerazione che i tempi possano essere ormai maturi per un certo risveglio di consapevolezza.

Se, da un lato – in seguito a questa “apertura” – vi è stato negli ultimi anni un pur cauto ma crescente interessamento nei confronti degli Eleusini Madre da parte di alcune istituzioni accademiche (prevalentemente statunitensi, greche e britanniche) e da parte di alcuni docenti universitari, storici e filologi che in essa hanno evidentemente visto una potenziale straordinaria opportunità di ricerca, è quantomeno curioso constatare come in certi ambienti del cosiddetto “tradizionalismo pagano”, soprattutto in Italia, l’apertura degli Eleusini Madre al mondo profano e la loro stessa decisione di palesarsi, di uscire al-lo scoperto, abbia suscitato un’ondata di sgomento e, soprattutto, una certa paura mista a incredulità. E vedrò di spiegare perché.

Un’ondata di sgomento non certo perché – e questo sarebbe stato senz’altro più comprensibile o giustificabile – si è voluto accusare gli Eleusini di aver rivelato al mondo profano chissà quali segreti iniziatici (cosa che comunque – e lo so per certo – non è mai stata fatta), bensì perché lo stesso messaggio dottrinale eleusino, per come è stato esposto in maniera limpida e lineare da Nicola Bizzi nei suoi saggi, non ha mancato di mettere profondamente in crisi gli schemi preconcetti e ormai consolidati che molti “tradizionalisti pagani” hanno nel tempo adottato e fatto propri. Schemi preconcetti dovuti in buona parte alla lettura delle opere di Julius Evola, Johann Jakob Bachofen, Alfred Rosenberg, Giustiniano Lebano, Giuliano Kremmerz, e all’idealizzazione di una presunta “Tradizione Italica” di matrice solare e indo-europea (e – già che ci siamo, perché no? – anche “iperborea”!)

Abituati a leggere esclusivamente le interpretazioni – spesso inesatte e fuorvianti – che dell’esperienza mistica eleusina e della relativa Tradizione misterica hanno diffuso per decenni sia i moderni storici delle religioni che gli autori sovracitati, molti “tradizionalisti pagani”, pur agendo – beninteso – in tutta buona fede, faticano a comprendere uno dei fondamenti stessi della Tradizione Misterica occidentale: il dualismo e la conflittualità fra Dei Titani e Dei Olimpici e, altra cosa non trascurabile, la contrapposizione fra Matriarcato e Patriarcato. E, altro punto cruciale, l’origine assolutamente pre-greca e non indo-europea dei culti misterici e delle relative dottrine.

Proprio mentre mi accingevo, su gentile richiesta di Nicola Bizzi, a scrivere questa prefazione al suo saggio, egli mi ha segnalato, dapprima tramite e-mail e poi in alcune conversazioni telefoniche, un interessante scambio di messaggi che ha avuto su un importante sito indipendente italiano, Ereticamente (www.ereticamente.net), che ospita numerosi interventi e studi di Storia, Mitologia e Tradizione Occidentale, in seguito alla pubblicazione di un suo articolo intitolato Un’unica Tradizione primordiale? Un articolo tratto proprio da un capitolo di questo saggio, nel quale l’Autore espone il punto di vista eleusino riguardo alle pretese, da parte di molti storici ed esoteristi, di identificare una presunta unica Tradizione primordiale connessa con un’altrettanto presunta unità trascendente di tutte le religioni.

Scrive, in tono piuttosto polemico, un lettore del sito:

«Non sono un cristiano e non mi interessa difendere un punto di vista abramitico, ma dal punto di vista della Tradizione pluralista pre-abramitica (detta erroneamente “paganesimo”) le vostre vedute sono assolutamente considerabili estranee, in quanto ponete al centro della questione una sorta di dualismo manicheo fra Titani e Dei Olimpici, dualismo sconosciuto nel pantheon plurale greco-romano, mediterraneo e ovviamente anche indoeuropeo. In questo dualismo voi rivendicate una preminenza di una presunta Tradizione iniziatica titanica, matriarcale e matrilineare, ponendola come unica e verace Tradizione. Già su questo punto si nota un certo esclusivismo riscontrabile nei monoteismi abramitici, esclusivismo che a me non sconcerta in quanto lo credo “utile” e connaturato a certe manifestazioni tradizionali, ma che può essere sconcertante se associato ad un genere di metafisica anti-esclusivista come era quella pre-abramitica, a cui voi vi riferite. Insomma, io qui ci vedo una forte contraddizione: questa contrapposizione netta fra culti solari e ctoni, che trattò anche un Evola ponendola alla base della sua morfologia delle società antiche, viene da voi semplicemente rovesciata in favore dell’elemento femminile, ma, mentre Evola comunque poneva l’anteriorità di un unità primordiale alla base del ragionamento e quindi una riduzione degli opposti nel suo pur marcato dualismo, voi ponete alla base del ragionamento l’irriducibilità di questo dualismo a qualsiasi forma di sintesi superiore riconoscendo solo nel vostro Titanismo (posso chiamarlo così?) la vera Tradizione. Un po’ come se un Hindù riconoscesse solo la tradizione derivante dagli Asura tacciando i Deva di essere degli impostori “patriarcali”. Ma questo paragone può essere fatto per tutte le tradizioni anche indoeuropee e mediterranee che vedono nello scontro fra Dei e Titani un momento fondamentale della propria metafisica…».

La risposta di Nicola Bizzi, piuttosto garbata, articolata ed esplicativa, è visibile sul sito in questione e non starò qui a riassumerla, poiché il contenuto stesso di questo libro, nella sua interezza, risponde già da sé a questi e a molti altri potenziali dubbi e interrogativi.

Come spiega bene Nicola Bizzi in un altro dei capitoli di questo saggio, le radici più profonde dell’Eleusinità affondano nella cultura e nella civiltà degli antichi popoli pre-greci dello scacchiere del Mar Egeo; tutte popolazioni etnicamente affini, caratterizzate da capigliature nere e carnagione olivastra, che, fin dai tempi più remoti, abitarono le isole Cicladi, Creta, la Grecia continentale e le coste dell’Asia Minore. Popolazioni che fecero tutte parte dell’Impero cretese dei Minosse, e che avevano soprattutto due elementi che le accomunavano: il culto degli antichi Dei Titani (spodestati, secondo la Tradizione ellenica, con una guerra detta Titanomachia da Zeus e dai nuovi Dei Olimpici) e la designazione delle proprie progenie per linea femminile (Matriarcato). Altra linea di fondo della loro cultura era la comune identificazione in una medesima stirpe sacrale, erede di una grandiosa precedente civiltà. Tutte popolazioni che, in quella che è passata alla Storia come la Guerra di Troia, si schierarono a difesa dell’ultimo baluardo della propria Tradizione, civiltà e religiosità, lottando disperatamente contro gli Achei ed altri popoli invasori, portatori di un modello culturale opposto ad antagonista a quello egeo.

Altra cosa, infatti, che non viene mai abbastanza chiarita in ambito storico è il fatto che il conflitto narrato da Omero nell’Iliade, più che una guerra commerciale fu una guerra di religione e lo scontro mortale fra due modelli di società e di civiltà contrapposti e tra loro inconciliabili: da un lato una vasta confederazione di popoli di stirpe egea, diretti eredi dell’Impero Minoico cretese e caratterizzati, come abbiamo detto, da un modello sociale improntato sul matriarcato e dal culto degli antichi Dei Titani; dall’altro un’eterogenea alleanza di popoli non di origine mediterranea, calati nella Grecia continentale nel corso di varie successive ondate migratorie, accumunati, oltre che dalla bellicosità, da un modello sociale di stampo patriarcale e dal culto dei nuovi Dei Olimpici usurpatori.

Se non si comprende questo dualismo e questa inconciliabilità di modelli culturali e religiosi che caratterizzò il drammatico passaggio fra l’Età del Bronzo e l’Età del Ferro nel corso del XII° secolo a.C., scrive giustamente Nicola Bizzi, non si può realmente comprendere l’essenza dell’Eleusinità e dei suoi Misteri.

Caduta Troia, infatti, divenne Eleusi l’ultimo baluardo di questa Stirpe Sacrale. La scelta di questa piccola località affacciata sul Golfo di Salamina, dove, secondo la Tradizione Misterica, giunse, incarnata in sembianze umane, la Dea Demetra nel 1216 a.C. per istituzionalizzare i Misteri, non fu infatti casuale. In una Grecia ormai in buona parte dominata da quei popoli invasori che si erano coalizzati per combattere contro Troia, Eleusi rappresentava, etnicamente e culturalmente, una sorta di enclave della cultura egea. Come hanno attestato gli scavi archeologici, qui il culto delle Due Dee, la Madre e la Figlia, era già attestato almeno dal XV° secolo a.C. E ad Eleusi erano stati trasportati, in segreto, in concomitanza con la caduta di Tarua dei Teucri, determinati documenti segreti ed oggetti sacri che nella città di Priamo erano conservati, facendo sì che essi non cadessero nelle mani dei nemici e permettendo così di perpetuare, secondo un filo che non si sarebbe più interrotto, la “Dottrina Unica e Verace”.

In sintesi, mi chiedo io, dove sta scritto che debba essere per forza esistita un’unica, diffusa e idilliaca “Tradizione pluralista pre-abramitica” (detta che sia, più o meno erroneamente, “paganesimo”) a cui fa riferimento il lettore? Egli si riferisce forse al rispetto e alla tolleranza che vigevano, sia giuridicamente (grazie all’osservanza del Mos Maiorum) che culturalmente nella Roma repubblicana e nei primi secoli dell’Impero nei confronti diverse dottrine e confessioni religiose? Se sì, gli posso dare solo in parte ragione, pur considerando che quella romana, per quanto caratterizzata da un certo pluralismo religioso, era una società profondamente patriarcale, generata da una stirpe di matrice indo-europea e (nonostante la preponderante influenza etrusca sugli albori delle proprie istituzioni politiche, sociali e religiose) fortemente contaminata dal culto di Divinità decisamente assimilabili agli Dei Olimpici; una contaminazione ravvisabile, del resto, nella stessa Tiade Capitolina. E la civiltà romana, restando in ambito mediterraneo, non è stata di certo la prima a sorgere, a svilupparsi e a decadere. È stata infatti preceduta da molteplici civiltà la cui storia è sempre stata caratterizzata da guerre di religione il cui elemento di fondo è sempre stato riconducibile al dualismo Dei Titani – Dei Olimpici, o comunque “Antichi Dei” – “Nuovi Dei”.

Non è affatto vero, inoltre, – come sostiene il lettore – che tale dualismo fosse sconosciuto «nel pantheon plurale greco-romano, mediterraneo e ovviamente anche indoeuropeo». Intanto perché non è mai esistito un unico “pantheon plurale greco-romano” né tantomeno “mediterraneo”. Un conto è parlare della religio tradizionale romano-latina, che consisteva, più che in una dottrina religiosa come possiamo oggi intenderla, in un vero e proprio contratto giuridico fra lo Stato e le Divinità, finalizzato al raggiungimento e al mantenimento della Pax Deorum. Un conto è invece parlare dei molteplici culti misterici presenti e ben diffusi e radicati a Roma e in ogni provincia dell’Impero. Culti che interessavano e coinvolgevano una cospicua parte della popolazione e che proprio su tale dualismo fondavano i propri insegnamenti iniziatici e la propria ritualità. Un dualismo che era del resto ben noto a Omero, a Esiodo, a Socrate, a Platone e a molti altri grandi Iniziati, filosofi e letterati dell’antichità.

Se andiamo a cadere sul discorso “indo-europeo”, poi, dobbiamo necessariamente considerare che non solo non è mai esistito un generico pantheon che possa fregiarsi di tale definizione, ma anche che era caratteristica comune di tutte le tradizioni religiose di matrice indo-europea una certa demonizzazione degli antichi Dei sconfitti (i Titani), in funzione della glorificazione dei nuovi Dei vincitori. Una demonizzazione il cui riflesso lo troviamo pienamente anche nella cultura greca, nel contesto di una certa letteratura pro-olimpica.

Quella di matrice indo-europea non è quindi mai stata una metafisica “anti-esclusivista”, bensì esclusivista all’ennesima potenza, in quanto non soltanto escludeva e marginalizzava le Divinità Titaniche sconfitte, arrivando addirittura ad operare irrealistici stravolgimenti delle più antiche vicende mitologiche (attribuendo, ad esempio a Zeus la presunta paternità di tutta una serie di Divinità che con lui o con gli altri Olimpici mai hanno in realtà avuto a che fare), ma escludeva e marginalizzava, demonizzandolo, addirittura l’elemento titanico che è insito in ogni essere umano (la stessa anima immortale, secondo la Tra-dizione Misterica Eleusina), facendolo passare per un qualcosa di negativo, brutale, oserei dire quasi demoniaco!

Non è corretto quindi affermare che «tutte le tradizioni anche indoeuropee e mediterranee vedono nello scontro fra Dei e Titani un momento fondamentale della propria metafisica…». Sarebbe semmai più corretto affermare che le tradizioni religiose di matrice indo-europea (quindi non di origine mediterranea) fondano la propria metafisica non sullo scontro fra Dei Olimpici e Dei Titani, bensì sulla glorificazione della vittoria dei primi e sulla demonizzazione dei secondi, gli sconfitti.

Come ha sottolineato Nicola Bizzi nel suo saggio, quella che può essere considerata dalla Tradizione Misterica Eleusina la più autentica Tradizione Primordiale, quella legata all’antico culto Titanico, è riuscita a sopravvivere e a perpetuarsi non certo grazie alle molteplici religioni che sono sorte e si sono sviluppate dopo di essa, ma nonostante queste. Anzi, è stata sempre, nella storia degli ultimi millenni, oggetto da parte di esse e delle loro caste sacerdotali di sistematiche persecuzioni, poiché niente può spaventare i nuovi Dei usurpatori e le caste sacerdotali delle religioni ad essi asservite più di una presa di coscienza, da parte dell’umanità, della sua vera natura titanica e delle sue potenzialità, di un ricongiungimento dell’umanità con la sua vera Tradizione Primordiale.

Se concordiamo con Gemisto Pletone e con i Pitagorici sulla reale esistenza di una catena aurea ininterrotta della trasmissione della Tradizione (catena della quale gli Eleusini sono stati e continuiamo ad essere i principali attori), possiamo a buon ragione identificare con essa, sì, la trasmissione di una Tradizione Primordiale, ma non certo la stessa Sophia Aionia, la stessa Sapientia Aeterna enunciata dal Filosofo-Iniziato bizantino e prima di lui da tutta la linea di continuità Pitagorico-Platonica.

Anche se la vera cristianizzazione forzata della società romana imperiale vide il suo apice sotto il regno di Teodosio, trovando piena “legittimazione” giuridica con il famigerato e criminale Editto di Tessalonica, questa drammatica involuzione catabasica e oscurantista della civiltà europea aveva decisamente radici più profonde. Se Costantino e i suoi successori avevano metaforicamente aperto la porta della gabbia del mostro e Teodosio l’aveva decisamente spalancata, permettendo ad esso di uscire e di scatenare la sua furia dogmatica e persecutoria (compiendo così quello che Fabio Calabrese ha giustamente definito l’atto più infame della Storia), questo mostro già si annidava da tempo nelle pieghe della storia, anche in quelle che il nostro lettore definirebbe tradizioni “pre-abramitiche”. Mi sto riferendo – per usare le parole di Nicola Bizzi – a un mostro tentacolare e strisciante dai molti nomi e dalle molte facce, emblema di ogni principio contro-iniziatico, che sin dalla sconfitta degli antichi Dei Titani ad opera degli Dei Olimpici usurpatori, puntualmente ha rialzato la testa con i propri emissari di turno (Zeus, Dioniso, Amenofis IV°, meglio noto come Akhenaton, Mosé, Gesù Cristo, fino ad arrivare al profeta dell’Islam Muhammad), operando incessantemente nella direzione di una sotto-missione dell’umanità e di un ottenebramento delle coscienze, con un obiettivo non solo finalizzato al mero dominio o potere politico, ma anche e soprattutto al voler impedire che l’umanità si riappropriasse di quel fuoco restituitole un tempo da Prometeo, che mangiasse il frutto proibito dell’Albero della Conoscenza, prendendo così piena consapevolezza di sé e di quella parte titanica che è naturalmente insita in ogni uomo e in ogni donna e che attende solo di essere risvegliata.

Infine, riguardo ai riferimenti a Julius Evola e alla contrapposizione netta fra culti solari e ctoni che egli pose alla base della sua morfologia delle società antiche, è ovvio che nella visione eleusina essa si presenti rovesciata in favore dell’elemento femminile. Ma non sono stati certo gli Eleusini a rovesciare alcunché. È semmai la visione di Evola che si fonda su concezioni e assiomi decisamente ribaltati rispetto a quelli dell’antica Tradizione mediterranea. Consiglierei a riguardo, non solo il nostro lettore, ma anche tutti gli interessati ad un approfondimento su certi temi, di leggersi l’ottimo saggio di Piero Fenili Gli errori di Julius Evola, pubblicato nel 1991 su due numeri della nuova serie della rivista di studi iniziatici Ignis, diretta all’epoca da Roberto Sestito.

Il lettore prosegue successivamente il suo intervento, ponendo una serie di altri legittimi quesiti:

«Un ultimo punto sul quale ho seri dubbi, penso legittimamente, è la vostra auto-certificazione riguardo un presunto autentico lignaggio e-leusino del quale voi sareste gli ultimi rappresentanti italici. Questo significherebbe una specie di rivoluzione copernicana nella spiritualità europea, ma dato che non sono nato proprio ieri diffido in maniera rigorosa da chiunque si professi iniziato ad un’organizzazione regolare iniziatica che sarebbe sopravvissuta da più di due millenni e che og-gi sarebbe addirittura operativa. Insomma, mi permetta di avere alme-no una forte perplessità su questo punto. Non che non sia possibile che autentiche vene misteriosofiche siano potute giungere fino a noi in am-bienti ristrettissimi (…), ma, viste le innumerevoli contraffazioni e le pseudo catene iniziatiche di cui il 99,99% delle organizzazioni si fregia per puro proselitismo, voi sareste un caso più che eccezionale e comporterebbe un possesso di testi e conoscenze non accessibili agli studiosi, sia accademici che esoterici. Insomma mi chiedo, se le vostre qualifiche siano anche ipoteticamente reali, come mai nessuno si sia mai accorto di una così gigantesca possibilità iniziatica. Insomma ci vogliono delle prove inconfutabili per affermare certi lignaggi… Infine concludo, scusandomi per la lungaggine, chiarendo che non ho pregiudizi di sorta, ma ritengo anche la vostra sicumera nel trattare episodi così lontano nel tempo molto sospetta tanto da ricordarmi certe divagazioni teosofiche dettate dai “superiori incogniti”…

Cordiali saluti, senza polemica».

Decisamente uno strano ambiente, quello del cosiddetto “tradizionalismo pagano” italiano (almeno se visto con gli occhi di un impenitente Americano come me!). Un ambiente in cui spesso si prediligono le letture delle opere di Evola e di Kremmerz piuttosto che le fonti vive e immortali di Esiodo, di Platone, di Plutarco, di Virgilio o di Proclo; un ambiente in cui grandi autori e interpreti della più autentica spiritualità “pagana” come Thomas Taylor, John Toland, Robert Graves o Friedrich Creuzer (per non parlare di Marsilio Ficino e Giorgio Gemisto Pletone) sono spesso ignorati e in cui domina incontrastato un irrazionale pregiudizio anti-massonico che ha portato addirittura alla emarginazione e alla messa all’indice delle opere di un gigante del pensiero iniziatico e tradizionale come Arturo Reghini! Un ambiente in cui possiamo facilmente trovare tutto e il contrario di tutto, e il cui collante, anziché essere una vera ed autentica ricerca e comprensione delle origini della Tradizione, si riduce spesso ad essere esclusivamente una sterile opposizione al Cristianesimo… ma in nome di cosa? In nome di un “paganesimo” idealizzato e romantico, oserei dire quasi “pastorale”, in cui tutti gli Dei, senza distinzione alcuna, vanno a braccetto e corrono felici per i Campi Elisi!

Mi si perdoni questo sfogo, ma potrete capire quanto esso sia giustificato dopo aver letto determinate cose!

A parte il fatto che il nostro lettore dimostra di non aver letto affatto opere come Da Eleusi a Firenze o altri saggi di Nicola Bizzi o comunque autorizzati dalle istituzioni eleusine (altrimenti avrebbe già avuto le risposte a tutti i suoi interrogativi), la questione della sopravvivenza e della perpetuazione in clandestinità, in forma organica e organizzata, di alcuni filoni della Tradizione Misterica pre-cristiana, e di quella Eleusina in particolare, dall’antichità fino ad oggi attraverso un filo ininterrotto, non è assolutamente – come è stato erroneamente da alcuni ipotizzato – una “auto-certificazione” degli Eleusini Madre. Si tratta di vicende storiche documentabili che hanno del resto interessato anche altre Tradizioni “pagane”, in primis il Pitagorismo (Jean Marie Ragon, che fu sia un Libero Muratore che un Iniziato eleusino, ha notoriamente documentato, ad esempio, tutta la storia della perpetuazione dell’Ordine Pitagorico, dal V° secolo d.C. fino alla seconda metà del XIX° secolo), l’Eleusinità Orfica (che si è tramandata segretamente anche all’interno di alcuni ordini monastici, fra cui i Camaldolesi) e altre realtà quali l’Isidismo e l’Ermetismo. Si tratta di vicende storiche che in Massoneria, a determinati livelli, conosciamo molto bene, anche se – comprensibilmente – non se ne parla, se non soltanto di sfuggita e a bassa voce, nelle Logge Azzurre. Ma, parallelamente, si tratta di una questione che, in un ambito storico ed accademico quale quello occidentale, pervaso e inevitabilmente segnato nel profondo da due millenni di imperante cultura giudaico-cristiana, ha sempre rappresentato una sorta di “tabù”.

Molti grandi storici e ricercatori, fra i quali possiamo annoverare Edgar Wind, Eugenio Garin, Frances Yates, Károly Kerényi, Mircea E-liade, Walter Burkert, si sono spesso trovati davanti alla verità, intravedendone la portata. Ma, rendendosi conto che potevano ritrovarsi ad avere a che fare con un quadro d’insieme non solo estremamente complesso ma anche potenzialmente esplosivo e pericoloso – un quadro d’insieme che probabilmente travalicava non la loro comprensione, bensì i limiti stessi della loro formazione culturale e della loro forma mentis – hanno preferito non affrontarlo frontalmente, scegliendo più comodamente di aggirarlo. Ma – la Storia ce lo insegna – una montagna non la si può scalare limitandosi a dare colpi di piccozza alle sue falde e ignorandone la cima, come del resto il Sultano Mehmet II° non ha conquistato le poderose mura di Costantinopoli praticando con un trapano manuale piccoli forellini sul loro basamento!

In particolare, Frances Yates e Eugenio Garin questa simbolica vetta sono riusciti a scorgerla, ma, per tutta una serie di ragioni solo a loro note (ma che noi possiamo legittimamente intuire), hanno deliberatamente scelto di non scalarla del tutto, preferendo adagiarsi sui suoi contrafforti. La Yates, valente studiosa ma con alcuni limiti interpretativi, si è adagiata su un contrafforte chiamato Ermetismo. E vi si è adagiata talmente bene che ha finito per vedere Ermete Trismegisto e la sua dottrina un po’ ovunque, interpretando in chiave ermetica scritti, vicende e fatti storici che con l’Ermetismo in realtà niente hanno mai avuto a che fare, o bollando come “ermetisti” grandi personaggi e Iniziati del passato che in realtà seguivano e praticavano ben altre dottrine, da quella Pitagorica a quella Eleusina.

Eugenio Garin ha invece, a mio parere, – e lo si intuisce chiaramente dai suoi libri – ben compreso l’altezza e le dimensioni della vetta che si proponeva di scalare, ma ne ha anche compreso l’intrinseca pericolosità. Tradotto in termini meno metaforici, ha saputo pienamente comprendere la realtà della sopravvivenza in forma organica e organizzata della Tradizione Misterica pre-cristiana attraverso il Medio Evo e il Rinascimento, ma ha anche compreso quanto il riportare alla luce del tutto una simile realtà potesse mettere a repentaglio la sua carriera universitaria e la sua reputazione di accademico. Una libera scelta, la sua (anche se discutibile), per rimediare in parte alla quale ha comunque voluto inserire nei suoi numerosi saggi sull’Umanesimo e sul Rinascimento dei fugaci ma chiari segnali che attestano quanto avesse realmente compreso la questione.

Molti altri storici che hanno affrontato (più corretto sarebbe dire che credono di aver affrontato) il tema dei Misteri Eleusini e della relativa Tradizione misterico-iniziatica, si sono limitati – sempre volendo parlare per metafore – a osservare fugacemente il ristretto panorama che vedevano dal loro angusto finestrino, senza neanche scorgere l’imponente e inviolata vetta che sorgeva al loro orizzonte.

Nicola Bizzi, in un capitolo di questo saggio appositamente dedicato, spiega molto bene quali sono le limitazioni che certi storici contemporanei si ritrovano a dover affrontare quando trattano questioni relative alla sfera del sacro degli antichi.

Posso dire con una certa cognizione di causa che in ambito libero-muratorio non ha suscitato un eccessivo clamore, né tantomeno meraviglia, l’uscita allo scoperto dell’Eleusinità Madre. Essa ha generato, semmai, una certa sorpresa, perché molti non se l’attendevano e ancora oggi si interrogano su quali possano essere state le vere ragioni di una simile decisione. Molti Fratelli, infatti, “sanno” e del resto non sono stati rari, in passato, sia in Europa che qui negli Stati Uniti, confronti (ma anche accesi scontri) fra i vertici del Rito Scozzese Antico e Accettato e del Rito di Memphis e Misraim e esponenti delle istituzioni eleusine. Come non sono stati rari i casi di Liberi Muratori che hanno chiesto di essere iniziati ai Sacri Misteri. Ma, come ha precisato Nicola Bizzi in un suo saggio introduttivo alla recente ripubblicazione di un testo di Arturo Reghini, se nella storia degli ultimi secoli vi sono stati non pochi Liberi Muratori che si sono avvicinati all’Eleusinità o che abbiano chiesto di esservi iniziati (e potremmo citare alcuni nomi anche celebri che sicuramente sorprenderebbero i lettori, profani e non), è sempre stato assai raro che un Eleusino si avvicinasse alla Libera Muratoria o che chiedesse di esservi iniziato. E questo perché vige in ambito eleusino una certa considerazione che è riassumibile più o meno come segue: perché andare ad abbeverarsi alle putride e fangose acque della foce quando da sempre noi ci dissetiamo con le chiare, pure e limpide acque della sorgente?

L’uscita allo scoperto degli Eleusini Madre, per rispondere al nostro lettore, ha rappresentato realmente una rivoluzione copernicana (una piccola curiosità che forse egli non sa: Mikołaj Kopernik era un Iniziato eleusino!), i cui effetti sono già da tempo percepibili, ma che so-no sicuramente destinati ad amplificarsi negli anni a venire.

Come scrivevo poc’anzi, sono già diversi i docenti e i ricercatori universitari, sia in Europa che in America, che hanno saputo cogliere la straordinaria opportunità di una collaborazione con le istituzioni eleusine. E fra di essi si può annoverare anche il sottoscritto, che lavora in ambito universitario da ormai venticinque anni.

Ho personalmente preso contatto con loro dopo aver letto l’edizione in lingua Inglese del primo volume di Da Eleusi a Firenze, e sono rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che mi abbiano risposto dopo neanche due giorni, replicando senza reticenze a tutte le mie pressanti domande che, inizialmente, potevano dare l’impressione di un vero e proprio interrogatorio. Naturalmente mi sono qualificato, sia professionalmente che iniziaticamente, e abbiamo avviato un serrato scambio di email, a cui è seguito – con ancora mia maggiore sorpresa – un invito a Firenze, dove mi sono recato con mia moglie e nostra figlia alla fine del mese di Maggio di quest’anno.

Mi interesso e mi occupo da una vita di antichi culti misterici (a questo interesse devo principalmente il mio ingresso in Massoneria, avvenuto negli ormai lontani ani ’80). Conoscevo soltanto di sfuggita la realtà iniziatica degli Eleusini Madre. Ero venuto a conoscenza in più occasioni e da varie fonti della perpetuazione della loro Tradizione, ma ammetto che ne ignoravo del tutto le esatte dinamiche storiche. Ritenevo, nella mia immaginazione, che fossero letteralmente inavvicinabili, irraggiungibili, al pari di personaggi del mito, di una sorta di “superiori incogniti” che nessuno può vedere o incontrare, e potete immaginare la mia sorpresa quando mi sono trovato davanti a delle persone normalissime (a parte la loro straordinaria erudizione e preparazione in campo storico, esoterico ed iniziatico). Padri e madri di famiglia, con lavori e con attività assolutamente “normali”, perfettamente inseriti nel loro contesto sociale. Nel mio forse ingenuo fantasticare non era forse così che mi immaginavo i diretti e legittimi eredi e perpetuatori di una Tradizione che ha annoverato fra le sue fila Platone, Pausania, Cicerone, Porfirio, Plotino, Proclo, numerosi Imperatori romani e personaggi straordinari come la grande filosofa e scienziata Ipazia di Alessandria. Ma poi ho smesso di favoleggiare e mi sono ricordato che, in fondo, ci trovavamo nel XXI° secolo.

Ero già stato a Firenze, ma una sola volta, al tempo in cui studiavo all’università. Ricordo che rimasi abbagliato e affascinato dalla sua bellezza e dai suoi tesori, ma mai avrei immaginato che la maggior parte degli uomini che la fecero grande e che molti dei suoi più importanti edifici, monumenti e capolavori artistici sono stati espressione proprio di quella Tradizione Misterica a cui ho poi dedicato anni di studio!

Ho trascorso quest’anno con la mia famiglia nella Capitale del Rinascimento cinque giorni veramente indimenticabili, nel corso dei quali Nicola Bizzi e altri suoi confratelli eleusini, con incredibile affabilità, gentilezza e disponibilità, ci hanno fatto da ciceroni, accompagnandoci a visitare la città e i suoi luoghi più misteriosi ed esoterici. E, naturalmente, hanno continuato a rispondere a molte delle mie tante domande, a chiarire molti dei miei dubbi e delle mie curiosità. Fino a che una sera, dopo un’ottima cena in una villa sulle colline della città, in una località chiamata Fiesole, si sono decisi a mostrarmi quella che hanno definito solo “una parte” dei loro archivi. In un grande salone adibito a biblioteca, con alle pareti grandi librerie in legno scuro colme fino al soffitto di libri, sia antichi che moderni, hanno aperto alcuni grossi faldoni ricolmi di manoscritti. Redatti sia in lingua Latina che in Italiano, risalivano ad un’età compresa fra il XV° e il XVIII° secolo. Ho potuto esaminare lettere, documenti di varia natura, antichi verbali di tornate rituali, di iniziazioni, di celebrazioni di cerimonie e feste sacre con splendidi sigilli in cera lacca, recanti segni e simboli del tutto particolari, molti dei quali erano a me del tutto sconosciuti. E ho potuto verificare, toccare con mano, anche grazie alle loro pazienti spiegazioni, le prove di una reale filiazione iniziatica, attraverso quantomeno gli ultimi tre-quattro secoli, di alcune delle loro famiglie.

Avrei trascorso in quella stanza giorni interi (se non settimane o mesi!) se ne avessi avuto la possibilità. Ma a un certo punto, dando una fugace occhiata all’orologio, mi sono reso conto che erano già le due e mezza del mattino. Per rispetto dei miei familiari (mia moglie e mia figlia erano letteralmente esauste, dopo un’intera giornata trascorsa a scarpinare per le vie di Firenze) e per non abusare troppo dell’ospitalità di queste persone così straordinarie, ho deciso di chiamare un taxi che ci avrebbe condotti al nostro albergo.

Quella notte ammetto di non aver dormito, tanta era la mia emozione. Mi aggirai come un’anima in pena fino alle otto del mattino, facendo nervosamente la spola fra il letto e il balcone della camera, con nella testa diecimila pensieri e, soprattutto, moltissime nuove domande che avrei voluto porre agli Eleusini. Ma alla fine mi tranquillizzai, sentendomi gratificato per quanto avevo avuto l’opportunità di ascoltare e vedere, contento di essere riuscito a guadagnare la fiducia di queste persone. Realizzai, nella mia testa, che per quanto sarei dovuto ripartire per gli Stati Uniti quello stesso pomeriggio, il mio rapporto di confronto e collaborazione con gli Eleusini Madre era appena all’inizio e che avrei senz’altro avuto l’opportunità di portarlo avanti.

Mi sentivo molto emozionato perché a quella cena avevo avuto anche l’opportunità di conoscere di persona quello che è, in successione sacrale, il 73° Pritan degli Hierofanti degli Eleusini Madre, un uo-mo anziano dai modi affabili e gentili, dalla profonda cultura e dallo sguardo estremamente vivo e penetrante. Non mi era stato presentato come tale, bensì solo con il suo nome, e soltanto nel corso di una nostra conversazione mi ha rivelato, con mio grande stupore, chi in realtà fosse.

Ripenso adesso, mentre scrivo queste righe, ai dubbi e agli interrogativi (senz’altro legittimi) che si poneva quel lettore del sito Ereticamente. Può risultare comprensibile la sua diffidenza, perché effettivamente, nel mondo, e soprattutto negli Stati Uniti, esistono numerose organizzazioni iniziatiche di dubbia natura che non solo non portano avanti dottrine fondate su solide basi, ma che spesso abusano della credulità (e del conto bancario) dei propri adepti. Ma, se io stesso potevo avere qualche dubbio o perplessità riguardo alla realtà del lignaggio iniziatico degli Eleusini Madre, devo ammettere che essi sono svaniti del tutto quella sera del 30 Maggio, quando mi è stato mostrato quell’archivio.

Il lettore in questione scriveva testualmente: «viste le innumerevoli contraffazioni e le pseudo catene iniziatiche di cui il 99,99% delle organizzazioni si fregia per puro proselitismo, voi sareste un caso più che eccezionale e comporterebbe un possesso di testi e conoscenze non accessibili agli studiosi, sia accademici che esoterici».

Ebbene, io ho potuto appurare che non solo gli Eleusini non fanno alcun proselitismo (sono rigidissimi in fatto di iniziazioni: per essere ammessi alla loro realtà occorrono due anni di preparazione e accettano soltanto, mediamente, non più di due o tre nuovi Iniziati ogni anno), e che soprattutto i “testi” a cui il lettore allude ci sono eccome! E ho avuto modo di appurare che non solo che ci sono, ma che sono anche stati resi in buona parte accessibili agli studiosi, sia accademici che esoterici!

Fra le altre cose, ho avuto la conferma del fatto che gli Eleusini sono in possesso di alcuni manoscritti del XVII° e XVIII° secolo che consistono in trascrizioni di alcune opere della classicità ufficialmente andate perdute. Mi ha però spiegato Nicola Bizzi potrebbe essere anche controproducente pubblicarli. Quando si ha in mano una trascrizione manoscritta di un testo redatta ad esempio nel XVIII° secolo, questa può costituire una prova? Per molti critici e filologi accademici non lo sarebbe e non troverebbe credito, ma solo discredito. Anche se, a pensarci bene, quasi tutta l’antica letteratura pre-cristiana greca e romana è giunta a noi attraverso trascrizioni arabe, bizantine o latine risalenti al Medio Evo e ai secoli successivi, pubblicando oggi un certo materiale, si correrebbe – a detta degli Eleusini – il rischio di fare la fine di quell’erudito inglese che nel XIX° secolo pubblicò i Libri Sibillini, una cui copia manoscritta di epoca medioevale egli sosteneva di aver ereditato dalla sua famiglia: non gli credette nessuno e ancora oggi viene accusato (dai pochi che si ricordano tale vicenda) di essersi inventato tutto!

Come ha scritto Nicola Bizzi in un suo articolo, le Scuole Misteriche degli Eleusini Madre, sopravvivendo alle persecuzioni cristiane del tardo Impero Romano ed entrando necessariamente in clandestinità per continuare ad esistere e a perpetuarsi, hanno tramandato e preservato nel corso dei secoli un vastissimo patrimonio di antichi testi e documenti rimasti fino ad oggi del tutto sconosciuti al mondo profano. Testi e documenti che erano in origine custoditi nelle biblioteche e negli archivi del Santuario Madre di Eleusi e delle sue scuole sacerdotali, nonché di altri importanti Templi e Santuari dell’Eleusinità in Grecia, in Asia Minore, in Egitto, in Italia e in altre regioni del mediterraneo, e che sono stati salvati dalla distruzione e messi in sicurezza da solerti Sacerdoti ed Iniziati, spesso al rischio della propria vita.

Quando i Cristiani presero a Roma il potere politico, arrivando ad acquisire saldamente nelle loro mani le redini dell’Impero, è tristemente noto che da perseguitati si trasformarono in persecutori e intrapresero una serie di crescenti azioni discriminatorie nei confronti di tutte le altre dottrine, tradizioni e religioni che fino a quel momento erano state pienamente tutelate dalle autorità e dalle istituzioni dello Stato e avevano pacificamente convissuto per secoli al-l’insegna della tolleranza, del reciproco rispetto e del Mos Maiorum, che rappresentava uno dei cardini dell’Impero stesso e dell’universalità romana. A partire dal IV° secolo d.C., e soprattutto dopo la promulgazione, nel 380 d.C., da parte di Teodosio e di Graziano del famigerato editto di Tessalonica che imponeva il Cristianesimo quale unica religione, vietando di fatto a tutte le altre di continuare ad esistere, buona parte del mondo allora conosciuto si apprestava così a cadere in un’assolutamente inedita morsa di pensiero unico, esclusivo ed ottenebrante, e a scivolare sotto una pesante cappa di intolleranza e di persecuzioni. Da Teodosio in poi, tutto ciò che era riconducibile alla religiosità ed alla spiritualità tradizionali, dalle opere d’arte all’architettura sacra, dalla Filosofia alla letteratura, fino alle semplici espressioni della antica religiosità popolare, venne spregiativamente bollato come “pagano” e di fatto vietato, distrutto, sottoposto a censure e a damnatio memoriae.

La triste vicenda della distruzione del Serapeo di Alessandria e della sua celeberrima Biblioteca e dell’assassinio di Ipazia, straordinaria figura di Iniziata eleusina e di eminente filosofa e scienziata, barbaramente violentata e massacrata da monaci cristiani agli ordini del Patriarca alessandrino Cirillo – oggi venerato dalla Chiesa come Santo! – è solo il caso più noto di una lunga e interminabile scia di sangue e di repressione che si protrasse per secoli.

Ovunque, – continua Nicola Bizzi – dal IV° fino al VII° secolo inoltrato, sia in Oriente che in Occidente, i Templi vennero saccheggiati, incendiati ed abbattuti, i Sacerdoti martirizzati e le biblioteche date inesorabilmente alle fiamme. La cultura, la Storia ce lo insegna, è sempre stata la prima vittima dell’odio e dell’intolleranza. La perdita del patrimonio culturale e religioso della classicità greco-romana fu a quel tempo veramente immensa, incalcolabile, ed è stato stimato che sopravvisse e si sia conservata soltanto una minima parte della letteratura antica, compresa quella di carattere scientifico e religioso.

Di fronte al lento e inesorabile soccombere di un modello di civiltà che aveva garantito per secoli la pluralità del pensiero e la piena libertà di culto e di espressione, e alla sistematica distruzione di Templi, Santuari e Biblioteche, la maggior parte delle antiche religioni e tradizioni misteriche, in primis quella Eleusina (sia nella sua espressione Madre che in quelle da essa derivate, ovvero quella Orfica, quella Samotracense e quella Pitagorica), ma anche quella Isiaca, quella Mithraica ed altre minori, non tardarono a comprendere che la via della clandestinità sarebbe stata l’unica percorribile per salvare il salvabile.

Beninteso, non tutte le religioni misteriche dell’antichità riuscirono a salvare allo stesso modo le proprie istituzioni e il proprio patrimonio testuale e sapientale, o comunque non tutte ebbero i mezzi, il tempo, le possibilità e le risorse necessarie per poterlo fare, entrando nella clandestinità in un drammatico momento storico in cui era divenuto estremamente pericoloso professare – financo in privato e fra le mura domestiche – la propria fede e la propria religiosità. Alcune tradizioni, infatti, non ressero all’urto delle persecuzioni e alla violenza della campagna repressiva cristiana e, vedendo arrestata, imprigionata o sterminata la maggior parte dei propri vertici e della propria classe sacerdotale, finirono per disperdersi o per dissolversi. Ad altre andò sicuramente meglio all’inizio, ma non riuscirono comunque a perpetuare e a trasmettere il proprio patrimonio di valori e di conoscenze per un lasso di tempo superiore a quello di alcune generazioni, o comunque per non più di pochi secoli, finendo per esaurirsi o per essere assorbite da alcune fra le tante correnti ereticali cristiane, in particolare da quelle del filone dello Gnosticismo. Diverso però fu il caso degli Eleusini Madre, da un lato, e degli Eleusini Pitagorici, dall’altro, la cui sopravvivenza in clandestinità è da più fonti attestata e documentata. Si trattava, infatti, delle istituzioni iniziatiche più forti e meglio capillarmente organizzate dell’antichità, non erano di certo prive di risorse e di importanti protezioni politiche e, soprattutto, erano le più determinate a preservare e a salvaguardare il proprio ingente patrimonio sapientale e dottrinale.

Come continua a spiegare Nicola Bizzi in un capitolo di questo saggio, le istituzioni ecclesiali eleusine e le relative scuole misteriche, dopo la chiusura, nel 380 d.C., del Santuario Madre di Eleusi da parte dell’ultimo Pritan degli Hierofanti ufficialmente in carica, Nestorio il Grande, si trasferirono di fatto all’interno dell’Accademia Platonica di Atene, fondata proprio in contemporanea con la chiusura del Santuario dal filosofo neoplatonico Plutarco di Atene, che era nipote di Nestorio e dal quale aveva ereditato sia le conoscenze che il titolo sacrale. L’istituzione accademica ateniese rappresentò per gli Eleusini e per le proprie scuole misteriche un porto sicuro fino al tempo di Giustiniano, e quando, per decreto di quest’ultimo, l’Accademia venne soppressa, già erano pronte sicure protezioni e sedi alternative.

Un percorso simile venne intrapreso anche dall’Ordine Pitagorico, anche se esso si era già da tempo allontanato per motivi politici e dottrinali dall’Eleusinità Madre, non riconoscendo più da alcuni secoli l’autorità superiore di Eleusi.

Torniamo però adesso a concentrarci sugli Eleusini Madre. Con l’ingresso delle istituzioni ecclesiali eleusine in clandestinità, sul finire del IV° secolo d.C., ingresso in clandestinità che fu molto probabilmente concordato o negoziato con le autorità cristiane in cambio di una formale chiusura del Santuario di Eleusi, fu possibile salvaguardare e mettere in sicurezza non soltanto gli Hierà (gli oggetti sacri dell’Eleusinità, fra i quali vi erano dei veri e propri oggetti “di potere”) e gli ingenti tesori custoditi nelle celle dei Templi, ma anche gli archivi e le biblioteche di quello che era stato per sedici secoli il principale centro religioso ed iniziatico di tutta l’area mediterranea, di quello che non a caso veniva considerato «il témenos dell’umanità». Quando, infatti, non molti anni dopo, nel 396 d.C., i Visigoti di Alarico, su istigazione di alcuni vescovi cristiani, saccheggiarono e distrussero il Santuario di Eleusi, non riuscirono a mettere le mani né sugli Hierà o sul tesoro, né tantomeno sui preziosi documenti segreti che erano intenzionati a carpire per conto dei loro mandanti: tutto era stato già portato via e messo al sicuro, e le orde barbariche si limitarono a distruggere le sacre statue e a incendiare gli ormai vuoti edifici. Similmente avvenne anche per gli altri principali Templi e Santuari dell’Eleusinità, i cui archivi e le cui biblioteche furono in buona parte messi in sicurezza dai Sacerdoti prima che l’odio cristiano si abbattesse inesorabile su tali sacri edifici.

Limitandoci al solo Santuario di Eleusi, che era stato ininterrottamente in attività dal 1216 a.C. al 380 d.C., un lasso di tempo quindi veramente notevole, e che aveva alle proprie dipendenze prestigiose scuole iniziatiche e sacerdotali, la mole dei documenti e dei papiri conservati nelle sue biblioteche doveva essere decisamente impressionante, sicuramente non inferiore a quelli della celebre Biblioteca di Alessandria. Non disponiamo purtroppo di una stima precisa, ma sappiamo che vi erano custoditi, oltre a un cospicuo numero di testi sacri e misterici, numerosi capolavori della letteratura antica, oltre a un notevole repertorio di opere storiche, cronache, trattati scientifici e matematici, opere filosofiche e carte geografiche, oltre naturalmente alle minuziose archiviazioni relative a secoli e secoli di attività iniziatica e religiosa. Non abbiamo purtroppo neppure una stima precisa di quanto, fra tale materiale testuale, sia stato messo in salvo nella Scuola Platonica di Atene e di quanto, invece, sia stato invece trasferito in altri luoghi ritenuti più sicuri. Sappiamo soltanto quanto oggi di tale patrimonio si è conservato, grazie alla solerzia e alla dedizione di numerose generazioni di scribi e di archivisti della Scuola Eleusina Madre, giunta e radicatasi in Italia nel XV° secolo e tutt’oggi presente e operante a Firenze e in altre città.

Ma gli Eleusini Madre sanno molto bene che i seppur numerosi libri e documenti in loro possesso rappresentano soltanto una minima parte del fondo originario. È infatti attestato da numerose cronache e documentazioni di età rinascimentale e dei secoli successivi che nel corso dei secoli bui del Medio Evo, per ragioni prettamente di sicurezza, molti testi furono affidati anche a ristretti gruppi di famiglie europee (in massima parte famiglie “allargate”, sul modello delle fratrie), discendenti per linea di sangue dalle otto Tribù sacerdotali di Eleusi. E fra queste vi furono diverse di quelle che divennero col tempo note come alcune delle più prestigiose casate nobiliari d’Europa. Famiglie destinate ad avere un ruolo determinante nelle complesse vicende storiche di quel tempo.

Ma determinati gruppi di famiglie e casate nobiliari che, in maniera diretta o indiretta, potevano vantare una discendenza dalle otto Tribù Primarie di Eleusi e che dal 380 d.C. in poi hanno avuto il compito di trasmettere, difendere e preservare ad ogni costo (al fianco e parallelamente alle legittime istituzioni ecclesiali eleusine entrate in clandestinità) la Tradizione Misterica Eleusina nella delicata e difficile fase di tale clandestinità, a parte determinate, circoscritte e anche rischiose affermazioni “identitarie”, comunque in parte dissimulate dal simbolismo e in ogni modo mai del tutto palesi, verificatesi in epoca rinascimentale (si pensi ai Medici a Firenze, agli Este a Ferrara, ai Guisa-Lorena in Francia, a Sigismondo Pandolfo Malatesta a Rimini, ai Da Varano a Camerino, a Giorgio Gemisto Pletone, a Piero Della Francesca, a Leon Battista Alberti, etc.), non si sono mai pubblicamente palesati sotto tale veste, ed era del resto impensabile che lo facessero. Essi hanno sempre infatti dovuto guardarsi le spalle e tutelarsi e difendersi su più fronti, sia nei confronti della Chiesa Cattolica che nei confronti di altre realtà iniziatiche avversarie.

Si parla sovente e con insistenza, in una certa saggistica più a torto che a ragione definita “complottistica”, di determinate “linee di sangue” che, fin da tempi incredibilmente remoti si spartirebbero i destini del mondo, spesso controllando e gestendo le vicende politiche degli stati da dietro le quinte o per interposta persona; linee di sangue tutt’altro che in armonia fra loro, in quanto incarnanti diversi interessi e diversi obiettivi, e la cui conflittualità ha sempre dato adito a guerre nascoste e sotterranee il cui riflesso è stato spesso incarnato da conflitti alla luce del sole fra eserciti e nazioni, o che comunque di essi ha rappresentato l’origine e le occulte cause scatenanti. Ebbene, in tutto questo c’è sicuramente del vero, ma si tratta di questioni che raramente vengono percepite o comprese dalle masse, o comunque da chi non sia avulso da determinati e ristretti contesti iniziatici. Chi crede di sapere, o chi detiene solo un quadro parziale e spesso distorto di tale realtà, parla spesso impropriamente di fantomatici “Illuminati”, o di segrete “confraternite dell’occhio che tutto vede”, senza rendersi conto che tali “confraternite” (chiamiamole pure così) hanno sempre avuto, negli ultimi millenni, un tenace ed altrettanto determinato avversario nell’Eleusinità e nella sua Tradizione Misterica. Ma, se già di Eleusinità si tende a parlare poco, o comunque a parlarne in maniera distorta e falsata nella saggistica storica e storico-religiosa, nel vasto arcipelago della letteratura e della saggistica fiorita negli ultimi decenni riguardo alle varie linee di sangue ed ai poteri occulti che si ritiene siano in lotta fra loro da tempo immemorabile per contendersi il controllo ed i destini del pianeta, raramente capita di trovare menzione degli Eleusini. Chi cerca notizie a riguardo nella saggistica “profana” si trova infatti spesso davanti a un muro di segretezza impenetrabile. Eppure, a quanto pare, sono stati proprio gli Eleusini, attraverso alcuni gruppi di famiglie e alle relative linee di sangue, a influire in maniera determinante, attraverso l’operato segreto dei loro Superiori Incogniti (i vertici dell’Istituzione Ecclesiale degli Eleusini Madre), spesso infiltrati anche all’interno della Chiesa, sui principali fatti ed eventi della Storia, dall’avvento dell’Umanesimo al Rinascimento, e, attraverso l’operato della loro derivazione “pitagorica”, a influire in maniera spesso diretta sulla nascita di numerose società segrete ed iniziatiche del XVIII° secolo, dagli Illuminati di Baviera di Adam Waishaupt agli Illuminati di Berlino ed Avignone di Dom Pernety, fino ad arrivare alla Massoneria “egizia” di Raimondo Di Sangro e di Cagliostro. E, secondo alcune interpretazioni che per il momento gli Eleusini non intendono confermare né smentire, tali linee di sangue, direttamente o indirettamente riconducibili alle otto Tribù Primarie di Eleusi, non sarebbero certo state del tutto estranee a fatti epocali come la “scoperta” del-l’America, la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana o l’avvento del Fascismo in Italia.

Come già è stato accennato, i seppur numerosi libri e documenti in possesso della Scuola Eleusina Madre oggi conservati a Firenze rappresentano soltanto una minima parte del fondo originario che sappiamo essere stato fino al 380 d.C. conservato nelle biblioteche e negli archivi del Santuario di Eleusi. L’ingresso in clandestinità delle istituzioni ecclesiali eleusine e delle relative scuole misteriche, le misure di sicurezza a più riprese adottate nel corso del Medio Evo per salvaguardare l’immenso patrimonio sapientale dell’Eleusinità ed altri fattori, quali in primis la dispersione fra le varie contrade europee delle antiche Tribù Primarie di rango sacerdotale di Eleusi e il loro mascherarsi e confondersi, in alcuni casi nel più totale anonimato o, in altri, nel contesto di importanti dinastie e casate aristocratiche, hanno fatto sì che un vastissimo patrimonio di testi venisse sempre più frazionato, finendo in diverse biblioteche private, accessibili quindi esclusivamente dalle rispettive famiglie detentrici, ma non da altre. Un manoscritto del XIX° secolo, conservato negli archivi della Scuola Eleusina Madre di Firenze, in un suo passaggio così recita a riguardo: «ogni Famiglia, Circolo o Scuola, è sempre stata rigorosamente gelosa del proprio patrimonio culturale, sempre pronta a prendere il mancante al proprio sapere senza niente concedere in cambio». A ciò dobbiamo aggiungere il fatto che, nel corso del tempo, eventi come guerre, rivoluzioni, saccheggi, furti (spesso e volentieri su commissione), incendi, inondazioni e terremoti hanno portato all’inevitabile compromissione se non alla distruzione di cospicue parti di detto patrimonio. Alcune sue parti non indifferenti, infine, sappiamo per certo essere finite nelle mani di organizzazioni iniziatiche rivali o avverse e della stessa Chiesa Cattolica, in particolare della Compagnia di Gesù (Athanasius Kircher docet!).

Non essendo quindi possibile presentare un quadro completo del contenuto di determinati archivi, Nicola Bizzi nel suo saggio si è limitato a parlare esclusivamente del materiale custodito dalla Scuole Eleusina Madre di Firenze, in buona parte proveniente dalle biblioteche della famiglia Eleusina Madre di rango sacerdotale pritanico dei Mariani di Costa Sancti Severi, discendente per linea di sangue dalla Tribù Primaria Eleusina dei Keryx.

I testi eleusini conservati a Firenze sono in massima parte di carattere religioso, teologico-mitologico, cerimoniale e rituale. Vi sono testi sacri dell’Eleusinità, alcuni dei quali conservati nella loro interezza, altri in frammenti sparsi riportati in codici medioevali; vi sono raccolte di inni sacri, preghiere e canti religiosi; vi sono calendari rituali e cerimoniali, concernenti le festività e le cerimonie religiose, incluse quelle a carattere iniziatico, stabilenti il contenuto e lo svolgimento delle cerimonie stesse. Vi sono, nel novero dei testi di natura teologico-mitologica, trattati cosmogonici e teogonici, concernenti l’origine degli Dei e dell’Universo, testi relativi alla creazione dell’umanità, testi sulla natura e sulle caratteristiche degli Dei, e raccolte di vaticini e profezie, dai contenuti veramente impressionanti. Vi sono poi numerosi trattati di natura scientifica (astronomici, matematici e geografici), testi filosofici, cronache storiche relative alle istituzioni ecclesiali eleusine e alle loro gerarchie sacerdotali e, infine, testi che potremmo definire prettamente di natura storica e letteraria, acquisiti nei tempi antichi dagli archivi del Santuario di Eleusi e preservati nella fase della clandestinità per l’importanza che veniva attribuita ai loro contenuti.

La stragrande maggioranza di questi testi è, per ovvie e comprensibili ragioni, coperta dal rigore del segreto iniziatico e, di conseguenza, non è mai stata né mai probabilmente sarà fruibile da ambienti profani, o comunque estranei alle scuole misteriche stesse, nonostante che gli Eleusini Madre ne abbiano in più occasioni ammesso e confermato l’esistenza. Ma, nel quadro di quella graduale apertura delle istituzioni Eleusine Madre al mondo profano di cui abbiamo detto, – apertura grazie alla quale si è resa possibile la pubblicazione di numerosi articoli e di alcuni saggi – è stata presa la decisione di mettere gradualmente a disposizione del pubblico, ma soprattutto di ricercatori e studiosi, una parte di questo vasto patrimonio testuale. Tale decisione, maturata ai vertici dell’Istituzione, non riguarda, né probabilmente mai riguarderà, i testi di natura strettamente iniziatica dell’Eleusinità, per varie ed ovvie ragioni destinati a restare segreti, bensì un limitato numero di opere di carattere storico, geografico, scientifico e letterario, non direttamente connesse con la Tradizione Misterica Eleusina e con la sua Dottrina, ma comunque acquisite nel corso dei secoli dalle Scuole Misteriche e da esse diligentemente preservate e conservate.

Posso dire, in un certo senso, di essere stato il “responsabile” della pubblicazione di questo libro. Quello delle antiche forme di iniziazione è sempre stato, oltre a un mio personale interesse che mi ha portato nel 1984 ad avvicinarmi alla Massoneria, anche il tema fondante di numerose mie ricerche. Ho addirittura tenuto negli Stati Uniti alcuni seminari su questo tema in ambito universitario, nel 2006 e nel 2007, riscontrando un grande interesse a riguardo da parte dei miei studenti del corso di Antropologia Culturale.

Avevo constatato che Nicola Bizzi aveva dedicato alla questione del-l’Iniziazione eleusina un intero capitolo del primo volume del suo saggio Da Eleusi a Firenze e, nel corso di uno dei nostri incontri avvenuti a Firenze mi sono permesso di chiedergli: perché non realizzi un testo specifico su questo argomento, ampliando quanto da te già scritto con nuovi dati e nuove informazioni? Perché non provi a scrivere un libro di facile comprensione, non necessariamente rivolto ad un ristretto pubblico accademico, bensì a tutti i potenziali interessati all’argomento, un libro che esponga – ovviamente nei limiti di ciò che è consentito dire senza infrangere alcuna regola del segreto iniziatico – quella che realmente è stata ed è l’Iniziazione eleusina, quali sono i suoi significati, e che soprattutto faccia chiarezza una volta per tutte, integrando le fonti classiche a riguardo con le informazioni riservate in possesso della vostra Scuola, sulla reale strutturazione in gradi del percorso di elevazione dell’Eleusinità?

Lui ci ha pensato un attimo e poi mi ha detto: Sì, è possibile, accetto volentieri questa sfida. A una condizione, però: che sia tu a scriverne la prefazione.

Ebbene, in neanche un mese Nicola Bizzi è stato capace di scrivere un vero capolavoro: un saggio prezioso, dotto, profondo e autorevole, ma anche straordinariamente chiaro e scorrevole. Un saggio a mio parere indispensabile per tutti coloro che intendono avvicinarsi ad uno dei temi più affascinanti, misteriosi ed enigmatici della religiosità antica. Per tutti coloro che intendono comprendere fino in fondo il messaggio e i significati di quello che Plotino riteneva il più limpido percorso di elevazione verso la conoscenza del Divino e verso l’affrancamento dell’Anima.

 

Francis William Hamilton

Detroit, 25 Luglio 2019.

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LA DAMNATIO MEMORIAE DI IPAZIA DI ALESSANDRIA E IL MISTERO DEL TRANSFERT CON S. CATERINA

La damnatio memoriae è notoriamente una locuzione che, nella lingua latina, significa letteralmente “condanna della memoria”. Nel Diritto Romano indicava, infatti, una pena consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia che potesse tramandarla ai posteri, come se essa non fosse mai esistita. Si trattava di una pena particolarmente aspra riservata in genere agli hostes, ossia ai nemici di Roma, del Senato o dell’Impero; nemici reali o presunti, o divenuti tali in seguito ai loro crimini o, molto più comunemente, dopo essere caduti in disgrazia presso i detentori del potere.

Nell’Urbe, in età repubblicana, tale sanzione – generalmente applicata dal Senato – faceva parte delle pene che potevano essere inflitte a una maiestas e prevedeva la abolitio nominis: il praenomen del condannato non si sarebbe tramandato in seno alla famiglia e sarebbe stato cancellato da tutte le iscrizioni. Inoltre si distruggevano tutte le eventuali raffigurazioni (pittore, scultoree e via dicendo) che lo riguardavano. In certi casi, previo voto positivo del Senato, la damnatio memoriae poteva essere seguita dalla rescissio actorum (annullamento degli atti), ossia dalla completa distruzione di tutte le opere realizzate dal condannato nell’esercizio della propria carica, opere divenute “scomode” proprio in conseguenza della condanna del soggetto, e perciò destinate alla distruzione affinché la loro lettura o diffusione non fosse per il popolo causa di cattivi insegnamenti. E se tale atto avveniva in vita, come in taluni casi è attestato dalle fonti storiche, allora – dal punto di vista giuridico – esso rappresentava una vera e propria morte civile.

In età imperiale l’uso di tale pratica sanzionatoria non conobbe freni  e toccò picchi di diffusione inauditi, divenendo quasi una prassi abituale, tanto che ne furono colpiti addirittura numerosi Imperatori, oltre alle loro consorti e a membri autorevoli delle loro famiglie. Tanto che, se un Imperatore veniva spodestato, manu militari o per congiure di palazzo, oltre a temere – a ragione – per la propria vita, doveva inoltre aspettarsi di veder distruggere, per mano di chi gli sarebbe succeduto, non solo la propria autorità ed il proprio alone divino, ma tutto ciò che riguardava la sua figura, con l’inesorabile abbattimento di statue e monumenti onorari e con la cancellazione del proprio nome dalle iscrizioni di tutti i monumenti pubblici.

Per dare un’idea dell’insensata e spropositata diffusione della damnatio memoriae in età imperiale, basterà dire che ne furono colpiti ben venticinque Imperatori (Caligola, Nerone, Aulo Vitellio, Otone, Domiziano, Caio Avidio Cassio, Commodo, Didio Giuliano, Pescennio Nigro, Clodio Albino, Geta, Macrino, Eliogabalo, Massimino il Trace, Treboniano Gallo, Emiliano, Marco Aurelio Caro, Marcio Aurelio Numeriano, Marco Aurelio Carino, Massimiano, Massimino Daia, Massenzio, Licinio, Crispo e Costantino II°), varie Auguste, mogli o madri di Imperatori (fra cui Iulia Agrippina, Bruzia Crispina, Fulvia Plautilla, Iulia Soemia, Iulia Aquila Severa, Iulia Avita Manea, Caia Cornelia Supera e Fausta Massima Flavia) e un certo numero di Prefetti e Consoli, fra cui Caio Cornelio Gallo e Lucio Elio Seiano.

Ma i Romani, anche se, da provetti legislatori quali sempre si dimostrarono, questa pratica la istituzionalizzarono, nei fatti non ne furono gli ideatori. Questo strumento della cancellazione e della damnatio di oppositori, di re e di personaggi divenuti in qualche modo “scomodi” era infatti già praticata nell’Egitto faraonico e presso numerose civiltà del Vicino Oriente antico. Se ne hanno ampie testimonianze addirittura nell’antica Cina e in India.

I Cristiani, una volta preso stabilmente il potere a Roma, è fatto noto che si dedicarono ad una spietata e sistematica persecuzione nei confronti non solo delle loro eresie interne, ma di tutti i culti e di tutte le plurimillenarie religioni dei gentili, trasformando in pochi decenni quello che era un Impero fondato sulla piena tolleranza e libertà religiosa in una teocrazia nelle mani di un manipolo di vescovi fanatici e assetati di sangue, contribuendo così a far scivolare l’intera civiltà occidentale nel baratro del Medio Evo. Innumerevoli furono le illustri vittime di questa tremenda fase persecutoria avviata dai successori di Costantino, e fra tutte spicca la figura di Ipazia di Alessandria, la grande filosofa, iniziata e scienziata barbaramente assassinata nella capitale egiziana nel 415 da monaci istigati dal vescovo Cirillo. E, anche se la damnatio memoriae continuò meno, in poca cristiana, da un punto di vista istituzionale (vi fu un drastico calo di formali condanne a tale pratica sanzionatoria, soprattutto nei confronti di Imperatori ed alte cariche dello Stato), essa divenne una prassi comune, quasi obbligata, nei confronti dei nemici e degli avversari – interni ed esterni – della Chiesa. Nemici ed avversari dei quali si tentò con ogni mezzo di cancellare o di obliarne la memoria, arrivando ad utilizzare la calunnia e la deliberata distorsione storica di fatti e vicende ad essi legate.

Ma la vittima più illustre, con il consolidarsi del potere della superstitio prava et immodica (come la definì Plinio), exitiabilis superstitio o superstitio malefica, come la definirono rispettivamente Tacito e Svetonio, fu senza dubbio la Tradizione Occidentale. Come sottolineò il grande Arturo Reghini[1], l’intolleranza religiosa, per cui diviene delitto perseguibile legalmente l’eterodossia del pensiero, non era sicuramente un carattere greco-romano. Il santo zelo della propaganda neppure; la subordinazione dei doveri del cittadino a quelli del credente, degli interessi della patria terrena a quelli della patria celeste neppure; la pretesa di rinchiudere la verità negli articoli di un credo, il fare dipendere la salvezza dell’anima dalla professione di una determinata credenza e dalla osservanza di una determinata morale neppure; lo spirito anarchico e democratico della fratellanza universale ed obbligatoria, della similitudine del prossimo e dell’eguaglianza neppure. Ci fa infatti notare sempre Reghini che «Non è il Cristianesimo che sia o sia divenuto occidentale, ma è l’Occidente che in certo modo è divenuto cristiano»[2]. E questa forzata cristianizzazione dell’Occidente, imposta con la spada e con lo scudo e al prezzo di centinaia di migliaia di martiri, ne ha pesantemente stravolto (anche se non cancellato del tutto) l’anima e la più intima essenza.

Ma la Tradizione non è un’astrazione o un mero concetto simbolico; essa è fatta anche di persone, di uomini e donne che, con il loro operato, con i loro scritti o con le loro azioni hanno contribuito a plasmarla, ad arricchirla e a difenderla. Personaggi come, ad esempio, gli Imperatori Flavio Eugenio e Flavio Claudio Giuliano e grandi donne, martiri ed iniziate, come l’Augusta Galeria Valeria e la filosofa Ippazia di Alessandria, che la Chiesa (e con essa il pensiero unico e totalizzante che ha usurpato l’Occidente) hanno condannato a secoli di damnatio memoriae.

In taluni casi si è arrivati addirittura, in un curioso parallelismo con la sovrapposizione e sostituzione “sincretica” di santi cristiani alle Divinità gentili originariamente venerate in determinati templi, santuari o altri luoghi di culto, alla creazione ad hoc di figure immaginarie di santi, costruite ed amplificate dall’agiografia, destinate ad essere sovrapposte a figure scomode del precedente regime dottrinale e, nei fatti, a sostituirle nell’immaginario popolare. Il ricorso ad una simile pratica si rendeva necessario, agli occhi della Chiesa, soprattutto quando le figure da obliare risultavano particolarmente “ingombranti” o nel caso in cui fossero state talmente note

presso l’opinione pubblica da renderne praticamente impossibile una cancellazione o una semplice damnatio memoriae tout court.

E questo fu proprio il caso di Ipazia di Alessandria, per la cancellazione della cui memoria la Chiesa dovette inventarsi una figura che ne rivestisse, seppur abilmente invertite e ribaltate nei contenuti, le principali caratteristiche. Stiamo parlando della figura di Santa Caterina di Alessandria.

Un interessante articolo di Sergio Michilini, intitolato Masolino, il Cardinal Branda e il transfert Ipazia/Caterina d’Alessandria[3],  riprendendo ed ampliando su nuove prospettive quanto già scritto da Silvia Ronchey nel suo saggio Ipazia, la vera storia[4], traccia un interessante parallelismo fra la figura della grande iniziata, scienziata e filosofa neoplatonica e quella di Santa Caterina d’Alessandria, la vergine e martire presuntamente uccisa nella capitale egiziana dai “pagani” nell’anno 305 dell’era volgare, quindi quasi un secolo prima del martirio di Ipazia.

Occorre premettere che non esiste alcuna prova storica fondata della reale esistenza di questa ipotetica “martire” cristiana, tanto che la stessa agiografia non è mai stata in grado di indicarne, neppure in maniera approssimativa, la data della nascita. E, al di là delle leggende popolari, le uniche fonti scritte che ne fanno menzione sono posteriori di diversi secoli ai fatti che pretenderebbero di narrare. La più antica è una passione scritta in lingua greca fra il VI° e il VII° secolo; vi sono poi un’altra passione, la Passio Sanctae Katherinae Alexandriensis, di autore sconosciuto e databile fra il 1033 e il 1048, e la più nota Leggenda Aurea di Jacopo Da Varagine, databile fra il 1260 e il 1298, il cui capitolo CLXIX° è in sostanza la fonte principale di tutte le speculazioni agiografiche successive che hanno interessato e glorificato questo fantasmagorico personaggio.

Secondo la tradizione popolare cristiana, Caterina sarebbe stata una bella e giovane vergine egiziana educata secondo i dettami del Cristianesimo. La Leggenda Aurea del Da Varagine la fa addirittura figlia di re e istruita fin dall’infanzia nelle arti liberali. Sempre secondo la tradizione, nell’anno 305 un imperatore romano avrebbe tenuto grandi festeggiamenti in proprio onore ad Alessandria. La Leggenda Aurea parla di Massenzio, ma molti ritengono che si tratti di un errore di trascrizione e che l’imperatore in questione possa essere stato invece Massimino Daia, che proprio nel 305 fu proclamato Cesare per l’Oriente nell’ambito della Tetrarchia (Governatore d’Egitto in quell’anno era invece, fin dal 303, il prefetto Clodio Culciano, che non pare possa essere il protagonista della storia). Caterina si presentò a palazzo nel bel mezzo dei festeggiamenti, nel corso dei quali si celebravano “feste pagane” con sacrifici di animali e accadeva anche che molti cristiani, per paura delle persecuzioni, accettassero di adorare gli Dei. La giovane rifiutò i sacrifici e chiese all’imperatore di riconoscere Gesù Cristo come redentore dell’umanità, argomentando la sua tesi con profondità filosofica. L’imperatore, che, secondo la Leggenda Aurea, sarebbe stato colpito sia dalla bellezza che dalla cultura della giovane nobile, convocò allora un gruppo di retori affinché la convincessero ad onorare gli Dei. Tuttavia, non solo questi retori non riuscirono a convincerla, ma essi stessi dall’eloquenza di Caterina sarebbero stati prontamente convertiti al Cristianesimo. L’imperatore, infuriatosi, ordinò allora la condanna a morte di tutti questi retori e, dopo l’ennesimo rifiuto di Caterina ad onorare gli Dei, la condannò a morire anch’essa su una ruota dentata. Ma, narra sempre la tradizione agiografica, lo strumento di tortura e condanna si ruppe e Massimino fu obbligato a far decapitare la santa, dal cui collo sgorgò latte, simbolo della sua purezza.

Sempre secondo l’agiografia, dopo il martirio il corpo di Caterina sarebbe stato trasportato dagli angeli sul Monte Sinai, e in questo luogo, nel VI° secolo, l’imperatore Giustiniano fondò il celebre monastero che ancora oggi porta il nome della santa.

Questo riporta il sito cattolico www.santodelgiorno.it alla voce Santa Caterina d’Alessandria, basandosi su una traduzione alquanto disinvolta del capitolo 172 della Leggenda Aurea del Da Varagine, quello appunto dedicato alla fantomatica santa:

«Nata da stirpe reale, fu dotata dalla natura di un ingegno e di una bellezza così rara, che era stimata la più fortunata giovane della città.
Ammaestrata in tutte le scienze, ma soprattutto nella filosofia dai più celebri retori, seppe innalzare il suo intelletto al disopra delle cose materiali, e dalle creature ascendere al Creatore.
Perciò, appena senti parlare della religione di Cristo, il suo acuto ingegno aiutato dalla grazia di Dio comprese che essa era la vera, e l’avrebbe abbracciata subito, se alcuni legami terreni non le avessero impedito il passo decisivo. Ma il Signore, che la voleva sua sposa, affrettò il suo ingresso nello stuolo delle candide colombe a lui consacrate.
Compresa dell’amore che il Signore nutriva per lei, si fece battezzare, dedicandosi totalmente alla beneficenza ed alla istruzione dei pagani. E tanto crebbe la fama della sua carità e del suo sapere, che giunse alle orecchie dello stesso imperatore Massimino. uomo tristemente celebre per la sua ferocia.
Egli fece chiamare Caterina alla sua presenza, per avere notizie più certe di ciò che di lei udiva e per conoscere più da vicino colei che tanto si celebrava.
Ma appena seppe dalla bocca stessa della Santa che era cristiana, subito con minacce ed imprecazioni ordinò che rinunciasse a quel culto da lui odiato, e sacrificasse a Giove.
Non si sgomentò il virile animo di Caterina a quelle parole, ma prontamente rispose ch’era risoluta di rimanere nella religione che professava, e incominciò a parlare della vanità degli dai e della verità dell’unico vero Dio con parole così ardenti che l’imperatore medesimo rimase sconcertato.
Fu quindi affidata ad alcuni filosofi pagani perché la convincessero d’errore, ma ella riuscì a condurli alla vera religione.
A tale smacco il feroce imperatore condannò a morire sul rogo quei nuovi convertiti, e presa Caterina, dopo villanie e disprezzi, comandò che il suo corpo fosse legato ad una ruota e poscia con uncini le fossero strappate le carni.
La Santa non si intimorì per simile supplizio, ma felice di dar la vita per il suo Sposo, si apprestò a morire fra quei tormenti. Appena quel corpo verginale fu a contatto con lo strumento del suo martirio, questo si spezzò fragorosamente, producendo gran panico fra i carnefici. Non si piegò l’animo di Massimino, e comandò che la Santa fosse immediatamente condotta fuori della città e le fosse reciso il capo.
Giunta al luogo del martirio, le furono bendati gli occhi ed il carnefice con un colpo staccò il capo di Caterina, ma da quella ferita sgorgò abbondante latte, ultima testimonianza della sua innocenza.
Il suo corpo venne dagli stessi Angeli trasportato sul monte Sinai e quivi seppellito. Sul suo sepolcro fu poi edificato un sontuoso tempio ed un grandioso monastero che resero imperitura la memoria di questa vergine di Cristo». 

 

Come sottolinea Silvia Ronchey nel suo saggio, la storia, o “passione” di questa martire, che avrebbe ispirato in seguito addirittura Giovanna D’Arco (è infatti identificata, insieme a Santa Margherita di Antiochia ed all’Arcangelo Michele, come una delle “voci” che guidarono la pulzella di Orleans) si materializzò molto tardivamente nei testi martirologici (come abbiamo visto, non prima del VI° secolo) «ma fu solo nel nono che affiorò nella devozione dei sant’uomini del monastero fatto costruire da Giustiniano sul monte Sinai, dedicato alla Trasfigurazione, ma che da allora prese il nome di Santa Caterina del Sinai. La santa-fantasma divenne allora celebre sia nel mondo bizantino, sia, o anzi soprattutto, in occidente, e più per la sua diffusione iconografica che per quella letteraria[5]». Tanto che in Francia è divenuta la patrona degli studenti di Teologia e delle apprendiste sarte, mentre in Italia non solo è arrivata ad essere riconosciuta come patrona degli studenti di Giurisprudenza nelle università di Padova e di Siena, ma addirittura come protettrice di cartai, ceramisti, mugnai e filosofi (sic!) e patrona di oltre cinquanta comuni, fra cui Bertinoro, Guastalla, Deruta, Dorgali, Scandiano, Locri e Paceco. E sono ben trentacinque, soltanto in Italia, le chiese ad essa dedicate.

Sempre secondo la Ronchey, gli studiosi dell’esiguo numero di pasiones bizantine che la menzionano non hanno potuto fare a meno di sospettare «che alla santa cristiana siano stati prestati i tratti della “santa laica” – e vergine e martire laica – massacrata non dall’imperatore romano Massimino, insidiatore del legittimo scettro di Costantino, ma dal faraone del monofisismo egizio Cirillo, usurpatore del legittimo potere statale emanante dal governo centrale di Costantinopoli»[6]. In sostanza, i tratti della martire Ipazia di Alessandria!

Che il martirio di Santa Caterina d’Alessandria e la sua esistenza storica fossero un falso clamoroso, sottolinea sempre la Ronchey[7], venne sostenuto già nel XVIII° secolo dal dotto Jean Pierre Defòris, tanto che la sua festa fu abolita dal Breviario di Parigi. Il povero Dom Defòris morì ghigliottinato nel 1794, ma lo scetticismo degli studiosi, sia laici che ecclesiastici, sopravvisse, motivato anche dalla mancanza di tracce della venerazione della sepoltura della santa negli itinerari dei pellegrini altomedioevali al Sinai, nonostante la leggenda volesse che qui il suo corpo e la sua testa fossero stati miracolosamente trasportati dopo il martirio da due angeli.

Le scarse e improbabili notizie sulla sua vita hanno sempre fatto dubitare della reale esistenza di una santa Caterina d’Alessandria d’Egitto. La stessa Chiesa Cattolica ha spesso espresso a riguardo i suoi seri dubbi, tanto che la santa venne clamorosamente esclusa dal Martirologio nel 1962 e la sua cancellazione dal calendario liturgico venne confermata da Papa Paolo VI° nel 1969, in  quanto «personaggio non storico, mai esistito». Sarà reintrodotta nel culto e nel calendario liturgico, seppur “in maniera facoltativa” soltanto diversi anni dopo ad opera di Papa Benedetto XVI°, lo stesso che ha promosso solenni festeggiamenti in onore del “Dottore della Chiesa” Cirillo, nominato tale nel 1882, dopo millecinquecento anni dal suo sanguinoso episcopato, dal suo predecessore Leone XIII°, «un Papa ossessionato dalla Massoneria e dai liberali mangiapreti che dominavano nella Roma dei suoi tempi»[8], al quale del resto è stata attribuita la celebre e controversa frase «la favola di Cristo ci frutta tanto che sarebbe pazzia avvertire gl’ignoranti dell’inganno»[9].

Al contrario della fantomatica Caterina d’Alessandria, l’esistenza di Ipazia di Alessandria e il suo martirio (che venne occultato per secoli) perpetrato ad opera del vescovo Cirillo e dei suoi fanatici monaci, è dettagliatamente e abbondantemente documentato da fonti attendibilissime, fin dai giorni dei tragici eventi di Alessandria che, ricordiamo, iniziarono con la distruzione della più grande Biblioteca del mondo antico, sede di tutto il sapere romano-ellenistico e grande centro di trasmissione iniziatica.

Ma, tornando all’interessante articolo di Sergio Michilini, vediamo come l’autore abbia individuato ulteriori conferme, oltre ad interessanti aspetti esoterici che più avanti approfondiremo, del transfert Ipazia – Santa Caterina in un celebre ciclo di affreschi aventi come oggetto la storia della fantomatica santa, realizzati da Masolino Da Panicale nella basilica di San Clemente a Roma, proprio in una cappella alla santa alessandrina dedicata.

Questo ciclo di affreschi venne commissionato a Masolino dal Cardinale Branda Castiglioni (1350-1443), una straordinaria figura di umanista e mecenate, divenuto, per via delle sue potenti amicizie in varie corti italiane ed europee, un preciso punto di riferimento per la cultura quattrocentesca.

Primogenito di una nobile famiglia milanese, Branda Castiglioni rinunciò ai privilegi della nobiltà per dedicarsi sin da giovane alla carriera ecclesiastica. Compì i suoi primi studi a Milano e nel 1374 lo troviamo iscritto nel collegio dei Nobili Giureconsulti della città lombarda. Si iscrisse poi all’Università di Pavia, conseguendovi nel 1389 il dottorato in Diritto Civile e Canonico e finendovi poi ad insegnare per un breve periodo. Nello stesso anno venne inviato a Roma da Gian Galeazzo Visconti, presso la corte di Papa Bonifacio IX°, con lo scopo ufficiale di ottenere privilegi e garanzie in favore dell’Università di Pavia, l’autorizzazione a introdurvi l’insegnamento di Teologia ed il conferimento delle medesime condizioni concesse alle Università di Bologna e di Parigi.

Nello stesso periodo venne nominato Uditore del Collegio della Sacra Rota da Bonifacio IX°, il quale lo inviò poi dapprima in Germania come legato pontificio e poi a Colonia e nelle Fiandre come nunzio apostolico e, infine, in un altra missione in Ungheria e in Transilvania. Fu in questa occasione che nacque una profonda amicizia fra Branda Castiglioni e Sigismondo di Lussemburgo, Re d’Ungheria, Croazia e Boemia, Rex Romanorum e Imperatore del Sacro Romano Impero.

Nel 1409 prese parte al Concilio di Pisa, indetto per porre fine allo scisma d’Occidente e per risolvere una controversia tra un Papa eletto a Roma ed un altro eletto ad Avignone. Al termine di tale Concilio venne eletto Papa Alessandro V°, il quale normalizzò la situazione ma morì pochi mesi più tardi. Suo successore fu Giovanni XXIII°, il napoletano Baldassarre Cossa (bollato poi, a torto, come “antipapa”), il quale reinviò Branda Castiglioni in Ungheria come legato pontificio, nominandolo poi, nel 1411, Cardinale di Santa Romana Chiesa. Nomina che indubbiamente rafforzo la sua posizione presso Sigismondo di Lussemburgo e, di conseguenza, con il Duca di Milano Filippo Maria Visconti.

Il perdurare dello scisma rese necessaria l’apertura di un nuovo Concilio che aprì a Costanza il 5 Novembre 1413 alla presenza di Giovanni XXIII e di Sigismondo. Branda Castiglioni partecipò a parecchie sessioni e si adoperò per giungere ad un accordo. L’11 Novembre del 1417 il conclave proclamò eletto Papa Ottone Colonna, che assunse il nome di Martino V° e fu l’unico Pontefice riconosciuto da tutta la Chiesa, il quale nel 1421 lo inviò in Boemia come legato pontificio, con lo scopo di arginare il movimento ereticale dei seguaci di Jan Hus, e da qui di nuovo a Colonia, al fianco di un potente esercito imperiale capitanato da Filippo Scolari (meglio noto come Pippo Spano).

Terminata la crociata, il Cardinale Branda Castiglioni proseguì la sua attività diplomatica in Ungheria dove, nel 1411, era stato insignito del titolo di Conte di Veszprém. Passò poi nuovamente in Germania con l’incarico di riformare il clero tedesco.

Rientrato in Italia partecipò alle trattative fra Milano e Firenze. Era infatti considerato un grande amico della famiglia Medici, anche se si mantenne sempre fedele ai Visconti.

Nel 1431, dopo aver convocato alcune sessioni di un nuovo Concilio a Basilea, moriva Papa Martino V°, al quale successe Eugenio IV°, eletto dai Padri Conciliari di Branda Castiglioni. Il Concilio si concluse nel 1437, stabilendo che si sarebbe riconvocato a Firenze per tentare una riconciliazione tra la d’Occidente e quella d’Oriente. Il nuovo Concilio si tenne a partire dal 1438, in varie sessioni, tra le città di Firenze e Ferrara e Branda Castiglioni vi sottoscrisse i più importanti documenti di Papa Eugenio IV°, mentre fu ospite della casa dei Medici e consolidò con la città di Firenze rapporti intrapresi già con successo qualche anno prima. Si trattò del medesimo Concilio che vide la presenza, in qualità di consigliere dell’Imperatore bizantino Giovanni VIII°, del grande Giorgio Gemisto Pletone, suprema guida dell’Ordine degli Eleusini di Rito Pitagorico, che proprio a Firenze aveva messo solide radici con l’apertura dell’Accademia Platonica, grazie all’operato di Cosimo dei Medici e di altri grandi iniziati come Marsilio Ficino e Matteo Palmieri.

Come ho scritto in un mio recente saggio[10], pochi sanno che alcune Scuole e Tradizioni Misteriche dell’antichità, in primis quelle Eleusine di Rito Madre e di Rito Pitagorico, sono sopravvissute fino ai nostri giorni, infiltrandosi addirittura all’interno della Chiesa, e determinando alcuni fra i maggiori eventi e fra le maggiori trasformazioni sociali degli ultimi secoli, a cominciare dal Rinascimento. Il Rinascimento, infatti, per via della presenza attiva di importanti iniziati Eleusini all’interno delle principali Corti e Signorie dell’Italia centro-settentrionale del XV° e XVI° secolo (in particolare in quella dei Medici a Firenze, in quella Estense a Ferrara e in quella dei Da Varano a Camerino) potette esplodere in tutto il suo splendore, con la riscoperta dell’Arte, della Filosofia e della Letteratura della Classicità e con una piena rinascita delle Scienze, accompagnata ad una vera rinascita delle coscienze.

A differenza di altri illustri personaggi di quel tempo, di cui è attestata e ben documentata l’appartenenza a determinati circoli iniziatici “pagani” di ambito pitagorico o neoplatonico, non ho fino ad oggi trovato elementi tali per poter confermare con certezza l’appartenenza a certi ambiti del Cardinale Branda Castiglioni. Anche se la sua figura di amico di potenti, legato da profonde amicizie con i sovrani dell’epoca, umanista, mecenate della cultura e delle arti attento alle correnti artistiche e letterarie del momento, tanto da farne un indiscusso punto di riferimento per tutta la cultura del suo tempo, farebbero propendere per questa ipotesi.

Ma, ancor più di queste sue caratteristiche non di poco conto, l’indizio maggiore di una segreta appartenenza di Branda Castiglioni ad ambiti iniziatici tutt’altro che cristiani potrebbe fornircelo proprio il fatto di aver commissionato a Masolino da Panicale il ciclo di affreschi su Santa Caterina d’Alessandria proprio nella basilica di S. Clemente a Roma, nel cuore della Cristianità.

A prescindere da una sua ipotetica appartenenza iniziatica, un uomo di profonda cultura come Branda Castiglioni non poteva certo ignorare la figura di Ipazia di Alessandria e l’artificiosità del mito agiografico della santa, fino ad arrivare alla sostituzione “sincretistica” della prima con la seconda operato dalla Chiesa nel tentativo di cancellarne per sempre la memoria.

Che ragione poteva avere, quindi, un Cardinale di Santa Romana Chiesa a commissionare a un artista come Masolino da Panicale (non certo estraneo alle simbologie esoteriche), fra un numero di santi e martiri pressoché sterminato a disposizione, proprio degli affreschi dedicati alla santa-fantasma nel cuore del potere papale?

La mia è soltanto un’ipotesi che forse non troverà conferma, ma ritengo che egli volesse lanciare un preciso messaggio a chi era in grado di comprenderlo: che la Filosofia, e con essa la Tradizione Iniziatica dell’Occidente, nonostante secoli di persecuzioni, era più viva che mai e che il Rinascimento delle Arti, della Sapienza e della Cultura, che in quegli anni stava prendendo forma, avrebbe presto gridato al mondo intero, attraverso lo splendore sibillino delle sue grandi opere d’arte, che Ipazia stessa era viva, più viva che mai, nei cuori e nelle menti degli uomini liberi.

 

Nicola Bizzi

 

[1] Arturo Reghini, Sulla Tradizione Occidentale, Saggio pubblicato nel 1928 sulla rivista Ur e recentemente ripubblicato da Aurora Boreale, con prefazione e saggio introduttivo di Nicola Bizzi.

[2] Ibidem.

[3] Articolo pubblicato in rete sul sito: www3.varesenews.it/blog/labottegadelpittore.

[4] Silvia Ronchey, Ippazia, la vera storia, ed. Rizzoli, Milano 2010.

[5] Silvia Ronchey: Opera citata.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Emilio Bossi, Gesù Cristo non è mai esistito, Società Editoriale Milanese, Milano 1904, recentemente ristampato da Aurora Boreale con prefazione e saggio introduttivo di Nicola Bizzi.

[10] Nicola Bizzi, La trasmissione di una Conoscenza Segreta, Ed. Aurora Boreale, Firenze 2017.

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EGITTO E MISTERI ELEUSINI: L’equivoco della presunta origine dell’Eleusinità dall’Egitto e l’ellenizzazione dei Riti di Iside e Osiride di Nicola Bizzi

EGITTO E MISTERI ELEUSINI:

L’equivoco della presunta origine dell’Eleusinità dall’Egitto

e l’ellenizzazione dei Riti di Iside e Osiride

 

di Nicola Bizzi

(estratto dal volume Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta. Edizioni Aurora Boreale, Firenze 2017)

 

La questione dell’origine dell’Eleusinità e dei suoi Misteri è stata oggetto in passato, in ambito storico e storico-religioso, di intensi dibattiti, di diatribe e di discussioni che hanno spesso spaccato il mondo accademico, protraendosi, nonostante le evidenze archeologiche emerse dagli scavi del XIX° e del XX° secolo, in parte ancora oggi. E la ragione sostanziale per cui non vi è stata ancora fra gli storici una piena identità di vedute a riguardo può essere in buona parte ricercata nella non obiettiva e fallace interpretazione di numerose fonti antiche, fonti che, come vedremo, erano fortemente condizionate da un pregiudizio fondato sul falso mito della presunta superiorità dell’Egitto e delle sue tradizioni religiose e sapientali sul mondo ellenico.

Una visione, questa, che infatti ritroviamo in molti autori Greci, che tendevano a mitizzare la cultura egizia, indicandola erroneamente come la madre di ogni sapienza e di ogni prototipo religioso.

In varie parti di questo saggio viene sottolineato e spiegato che la comune associazione della Dea Demetra al grano, alle messi e alla fertilità della terra sia frutto di una visione popolare e profana dello hieros-logos eleusino e che in realtà, dal punto di vista iniziatico, coloro che ricevevano in Eleusi il sale della vita, accedendo ai Sacri Misteri, sono sempre stati ben consapevoli dell’infondatezza di alcun preteso nesso o legame fra la Dea e il biondo frutto della terra, e del fatto che la presenza della spiga in varî passaggi della ritualità e il conferimento, da parte di Demetra, a Trittolemo del compito di “seminatore” erano finalizzati alla comprensione di concetti assai più profondi, quali la natura dell’anima umana e la sopravvivenza di essa alla morte attraverso il ciclo delle rinascite (la spiga di grano rappresenta infatti, esotericamente, il ciclo della vita: concepimento, nascita, crescita, morte e nuova vita. E L’iniziato, come la spiga mietuta, offre dunque se stesso e i suoi semi, cioè la ricchezza della sua esperienza personale, che nel tempo ha “maturato” e può ancora “perfezionare”). Eppure, nonostante la palese evidenza che la conoscenza dei cereali e la loro coltivazione fossero una realtà consolidata, in Attica come in numerose altre parti del mondo antico, già millenni prima dell’incarnazione della Dea, del suo arrivo ad Eleusi e della sua Rivelazione, attorno al mito della presunta associazione fra Demetra e la nascita dell’agricoltura e fra la Dea e la diffusione del frumento e di altri analoghi cereali, sono fioriti i miti e le leggende più disparati, molti dei quali avevano fini prettamente “politici”. Miti e leggende che non hanno fatto altro che alimentare la presunta correlazione fra Demetra e il grano, influenzando per secoli la poetica e la letteratura. Basti ricordare a riguardo i celebri versi citati da Plutarco nei Moralia: «Che mai serve ai mortali oltre queste due cose: la spiga di Demetra e un sorso d’acqua pura?».

La lettura della Bibliotheca Historica di Diodoro Siculo ci offre numerosi esempi di una certa strumentalizzazione “politica” delle interpretazioni profane dello hieros-logos eleusino in relazione al collegamento Demetra-frumento e di come varie polis della Grecia, e persino varie nazioni non greche dell’area mediterranea, fossero solite contendersi il primato della “scoperta” del grano, dichiarando e pretendendo che il loro territorio fosse stato “visitato” dalla Dea prima degli altri. I Sicelioti, ad esempio, in quanto abitavano un’isola per varie ragioni sacra a Demetra e a Kore-Persefone, ritenevano verosimile che la Dea avesse elargito a loro per primi il biondo frutto della terra. Scriveva infatti a riguardo Diodoro che per i Sicelioti «sarebbe infatti strano che la Dea da un lato considerasse propria questa terra fertilissima e dall’altro la rendesse partecipe del beneficio per ultima, come se le fosse indifferente, avendo per di più Ella avuto dimora proprio qui»[1].

Come sottolinea l’archeologa Anna Maria Corradini, il fatto che Diodoro affermi che la Sicilia sia stata la prima in assoluto a conoscere il grano e che solo dopo Demetra, vagando alla ricerca della Figlia, lo abbia donato agli Ateniesi, deve far riflettere: se esistono fattori campanilistici per cui Diodoro, nativo di Argira, è propenso ad attribuire alla Sicilia il primato della scoperta del grano, tuttavia l’antichità del culto sembra un fatto acclamato[2]. E questo è vero, perché, a prescindere dai “campanilismi” e dalle assurde illazioni in merito ad un presunto primato della coltivazione del grano, il culto delle Due Dee, Demetra e Kore-Persefone, è attestato in Sicilia sin dalle epoche più remote della “Coscienza Proto-Eleusina”, quando l’isola rientrava a pieno titolo sotto l’influenza politica, culturale e religiosa della Creta minoica.

Ma la versione del mito, fra quelle riportate da Diodoro, che più appare elaborata per fini prettamente politici risulta essere quella diffusa dagli Egiziani. Scrive infatti Diodoro: «Gli Egiziani affermano che Demetra e Iside sono la stessa Divinità e che la Dea portò il seme in Egitto prima che altrove, poiché il fiume Nilo irriga le pianure al momento opportuno e la loro terra gode di un eccellente clima temperato»[3].

Molti storici hanno sostenuto che da queste parole di Diodoro si comprenderebbe come per gli Egiziani l’identificazione di Iside con Demetra e la loro assimilazione in un’unica Divinità, nonché il vantare un presunto primato nella coltivazione cerealicola connesso a tale identificazione, potesse assumere una sorta di valore “politico”, funzionale con certe presunte mire espansionistiche, oltre che commerciali, che di tanto in tanto potevano emergere in seno alla corte faraonica nei confronti dell’Attica e di altri territori greci. Ma personalmente ritengo del tutto improbabili e irrilevanti eventuali mire espansionistiche dell’Egitto faraonico nei confronti della Grecia. Durante l’Antico Regno (2700-2192 a.C.), il Primo Periodo Intermedio (2192-2055 a.C.) e il Medio Regno (2055-1650 a.C.) sia l’area dell’attuale Grecia continentale che le numerose isole dell’Egeo erano sotto il diretto controllo della Creta Minoica, con la quale l’Egitto aveva un canale preferenziale nel commercio e solidi rapporti di alleanza. Il Secondo Periodo Intermedio (1650-1550 a.C.) di fatto coincise con l’invasione degli Hyksos e con il loro dominio sull’area del Basso Egitto e del delta del Nilo. Soltanto durante il Nuovo Regno (1550-1069 a.C.) e il Terzo Periodo Intermedio (1069-664 a.C.), fasi successive al tracollo della civiltà minoica e della propria talassocrazia e coincidenti con la cosiddetta Età Micenea e con il Medio Evo Ellenico, tali mire sarebbero state ipoteticamente possibili e plausibili, ma non ebbero di fatto alcuna conseguenza che andasse oltre gli scambi commerciali e la creazione di limitati ed esigui insediamenti costieri. Quindi dobbiamo dedurne che l’interpretazione egizia del mito di Demetra, l’associazione-identificazione di quest’ultima con Iside e il suo collegamento con un ipotetico primato nella coltivazione cerealicola siano relativamente tardive e dettate da un sentimento nazionalistico fondato anche sulla presunzione di una superiorità sia religiosa che culturale dell’Egitto. Un sentimento che, del resto, nella terra del Nilo era assai diffuso nei confronti degli altri popoli, mediterranei e non. Ma vediamo, prima di esprimere ulteriori commenti e considerazioni, con le stesse parole di Diodoro, quale fu questa “interpretazione” egizia:

«(…) Eretteo, che era originario dell’Egitto, divenne Re degli Ateniesi. Queste le prove: durante la siccità generale che, per ammissione comune, colpì quasi tutta la terra abitata, ad eccezione dell’Egitto per il carattere peculiare di tale regione, e che provocò la distruzione dei raccolti e la morte di un gran numero di uomini, Eretteo fece portare dall’Egitto, per le affinità di sangue che lo legavano a quella terra, una grande quantità di grano. In cambio, il popolo beneficato elesse Re il suo benefattore. Questi, assicuratosi il potere, insegnò le cerimonie iniziatiche di Demetra a Eleusi e fondò i culti misterici, trasferendone il rituale dall’Egitto. Né risulta contraria a ragione la tradizione che colloca l’avvento della Dea in attica in questo periodo, come se fosse allora che i frutti legati al nome di Demetra fossero stati introdotti in Atene, e pertanto si pensò che nuovamente fosse avvenuta la scoperta dei semi e che questi fossero doni della Dea. Anche la tradizione ateniese ammette, dal canto suo, che durante il regno di Eretteo, dopo che l’assenza di piogge aveva cancellato i raccolti, Demetra fece la sua comparsa in Attica col dono del grano. Inoltre, i riti iniziatici e i Misteri di questa Dea proprio allora sono stati istituiti a Eleusi. Anche per quanto riguarda i sacrifici e le cerimonie più antiche, il comportamento degli Ateniesi è simile a quello degli Egiziani: infatti gli Eumolpidi derivano dai sacerdoti egiziani e i Kerykes dai pastofori. Si aggiunge che gli Ateniesi sono i soli tra i Greci a giurare nel nome di Iside e che per aspetto e costumi sono davvero vicini al popolo egiziano.

Con questi e con altri analoghi discorsi, dettati a mio parere più dall’ambizione che dall’amore di verità, gli Egiziani rivendicano Atene come loro colonia per via dell’importanza e della gloria della città»[4].

Sinceramente, una simile sequela di sciocchezze prive di alcun fondamento non meriterebbe alcun commento e alcuna considerazione. È stato però necessario riportarla in questa sede ai fini della chiarezza, poiché tale “interpretazione” egizia ha storicamente fatto più danno della grandine, influenzando dapprima diversi antichi autori e, in epoca più recente, una schiera di storici delle religioni che hanno preteso di ravvisarvi un qualche fondo di verità. Ma questa “favoletta” egizia, probabilmente diffusasi, con fini di rivalsa “nazionalista”, fra la fine del decadente Terzo Periodo Intermedio e l’inizio della dominazione persiana sulla terra del Nilo, e dalla quale lo stesso Diodoro prende ampiamente le distanze, si smonta da sé con poche semplici considerazioni. Innanzitutto perché Eretteo, sesto mitico Re di Atene che la tradizione vuole figlio (o, in altri casi, nipote) di Erittonio (altro mitico Sovrano ateniese che Pausania ci dice figlio di Efesto e di Gea[5] e che Apollodoro indica come figlio di Efesto e di Atena[6]), non può in alcun modo essere collegato con l’Egitto, né gli si possono attribuire origini egiziane. In secondo luogo egli ci viene descritto concordemente da tutte le fonti come acerrimo nemico di Eleusi, contro la quale ingaggiò una lunga guerra; nemico sia da un punto di vista politico che, soprattutto, da un punto di vista religioso. Non avrebbe quindi potuto in alcun modo rendersi artefice dell’istituzione, in una città a lui nemica, di un culto misterico che già peraltro esisteva e al quale era nettamente ostile.

Per non parlare della ridicola presunzione di far derivare dai Sacerdoti egiziani le due principali Tribù sacerdotali di Eleusi, gli Eumolpidi e i Kerykes!

Eppure, certe “mitologie” nazionalistiche egizie, accompagnate dalla pretesa di vedere nelle Divinità elleniche una presunta origine dalla terra bagnata dal Nilo e di vedere, di conseguenza, l’Egitto come depositario di ogni originaria ed antica sapienza, influenzarono non poco la mentalità ellenica. Una tendenza, questa, che si accentuò ulteriormente e notevolmente in età ellenistica, con la conquista del regno faraonico da parte di Alessandro Magno e con il conseguente incontro diretto e prolungato fra la cultura egizia e quella greca; incontro che permise al mito osiriano quale si svilupperà in questa nuova fase storica sotto il patrocinio di una figura di Iside marcatamente “ellenizzante”, cuius nomen Aegyptiis placet, di sublimare all’alto valore di pegno mistico dell’immortalità beata i vecchi riti funerari propri della terra d’Egitto. Ma anche un incontro che dette inevitabilmente vita a inedite forme di sincretismo religioso che culminarono nella creazione, squisitamente tolemaica, del culto di Divinità “costruite” come Serapide (Σέραπις), una nuova Divinità “creata” su misura, nelle intenzioni di Tolomeo I°, per il variegato e cosmopolita ambiente religioso-culturale alessandrino, che sarebbe dovuto divenire (e che in buona misura divenì) il perfetto connubio delle due tradizioni. Serapide si presentava, in tutte le raffigurazioni scultoree, con lineamenti marcatamente ellenici e con folta barba, richiamando così le tradizionali raffigurazioni di Zeus, con un kalathos sul capo (richiamando così aspetti propri della Tradizione Misterica che esamineremo in altri capitoli), ma riuniva in sé, snaturandole e stravolgendole, le figure di Osiride (Ausar nella forma originale egizia e Ὄσιρις nella sua forma ellenizzata) e quella del Dio Api (Hep nella forma originale egizia), un’antichissima Divinità il cui culto è attestato da Manetone già al tempo della IIª Dinastia e che a Menfi era venerata sotto la forma di un toro.

Si ebbe inoltre in quel periodo una forzata “ellenizzazione” di alcune delle tradizionali Divinità del complesso pantheon egizio, i cui nomi ci sono infatti pervenuti, nelle fonti letterarie greche e latine, nella loro forma ellenizzata, e una forzata, a tratti talvolta anche ridicola e paradossale, assimilazione di esse con alcune Divinità greche. L’oscena figura di Dioniso venne così assimilata, nella mentalità popolare greca, in maniera del tutto impropria, con quella di Osiride, che già abbiamo visto “aggregata” nella figura alessandrina di Serapide, Amon, “il misterioso”, “il nascosto” (nella forma originale egizia Imn), Divinità antichissima e della massima importanza, venne identificato con l’inflazionato e onnipresente Zeus, e Anubis (nella forma originale egizia Inpw), per via del suo ruolo di Divinità che presiede al mondo dei defunti, venne assimilato con il greco Hades (ᾍδης).

Altra aberrazione alessandrina fu il tentativo di riunire sincretisticamente le figure di Hermes e di Anubis, con l’artificiosa creazione di una nuova Divinità, Hermanubis, che non trovò però molto consenso fra le classi popolari dell’Egitto tolemaico. Si crearono anche forzate identificazioni e assimilazioni fra la Dea Hathor (Ḥwt-ḥr nella versione originale egizia) e Afrodite, fra il Dio Min (Mnw nella versione originale egizia), Divinità itifallica di origini antichissime e già venerata in epoca predinastica, e il greco Pan, fra la Dea Madre egizia Mut (Mwt nella forma originale), la “Signora del Cielo” associata alle acque da cui tutto aveva avuto origine per partenogenesi, e la scialba paredra di Zeus Hera, fra la Dea Neith (Nt nella forma originale), la patrona della città di Sais nel delta occidentale del Nilo, associata alla guerra e alla caccia e considerata artefice delle armi dei guerrieri e guardiana dei morti in battaglia, e Atena (e talvolta Artemide). Inoltre, Onuris (Inhert nella forma originale), Divinità anch’Essa associata alla caccia e alla guerra, il cui culto si sviluppò già in epoca remota nei deserti del Basso Egitto, conosciuto come colui che aveva raccolto l’occhio di Ra, di cui era il messaggero, venne immancabilmente assimilato al greco Ares, mentre Ra, antica Divinità solare del pantheon eliopolitano (forse l’u-nica il cui nome non venne ellenizzato), successivamente associata al Dio tebano Amon (dando così origine alla figura di Amon-Ra, la più importante Divinità del pantheon egizio a partire dalla XIIª Dinastia), venne assimilato con Helios. Si ebbero infine quantomeno curiose assimilazioni fra Nekhbet (Nḫbt nella forma originale), Dea dell’Alto Egitto di origini predinastiche raffigurata con le sembianze di un avvoltoio, e la Dea Titana Eileithyia (Εἰλείθυια), associata alla vita e ai parti, fra Hershef (Ḥry-š-f nella sua forma originale e Harsaphes nella sua forma ellenizzata), altra Divinità dell’Alto Egitto, una sorta di demiurgo che nacque dalle acque primordiali affiorando sul fiore di loto, il cui nome significa letteralmente “Colui che è sul suo stagno”, ma che veniva anche definita “Colui che ha grande forza”, e la figura di Eracle, e fra Nefertum (Nfr-tm nella forma originale), antico Dio della regione di Menfi, il cui nome significa “perfetto, senza uguali”, e il Dio Titano Prometeo. Ma l’assimilazione sincretica più nota di quel tempo fu senza dubbio quella fra Iside (Aset nella sua forma originale e Isis nella sua forma ellenizzata), Divinità di origine celeste, quindi stellare, associata alla maternità e alla fertilità, figlia di Nut e Geb, sorella-sposa di Osiride e madre di Horus, con la Dea Titana Demetra, l’istitutrice dei Sacri Misteri e la figura centrale della ritualità Eleusina.

 

Confronto fra una statuetta egizia raffigurante Iside che allatta Horus e un dipinto cristiano raffigurante la Madonna con Gesù Bambino

 

Obiettivamente possono essere ravvisati non pochi punti di contatto e similitudini fra le figure di Iside e di Demetra, ma da qui ad affermare, come hanno fatto taluni storici delle religioni, che la seconda possa derivare dalla prima o che siano identificabili come la stessa Divinità, ce ne corre. Una simile affermazione, come vedremo, oltre ad essere priva di oggettivo fondamento (poiché le due Dee mantennero sempre le proprie ben riconoscibili caratteristiche e singolarità), si inserisce di buon grado in quel fallace orientamento culturale che, sulla scia delle tendenze sincretistiche della tarda antichità e della riscoperta tardo-medioevale e rinascimentale della Tradizione Ermetica (che niente ebbe mai a che spartire con l’Eleusinità Madre), si riallaccia a quel deleterio atteggiamento relativistico, purtroppo fatto proprio anche da varî ordini iniziatici e in primis dalla Massoneria, che è sfociato nella delirante idea di una presunta unità trascendente delle religioni nel segno di un’altrettanto presunta unica Tradizione primordiale. Un’idea, quest’ultima, che gli Eleusini hanno sempre aborrito e fortemente confutato e che prenderemo meglio in esame nel capitolo Misteri e Filosofia.

Prima di prendere in esame nel dettaglio le cause e le ragioni dell’assimilazione sincretica fra le figure di Iside e di Demetra, focalizziamoci sul particolare contesto storico che fece sì che una dottrina religiosa che mai, nei secoli, era uscita dai sacri confini della terra dei Faraoni, ad “ellenizzarsi” e a diffondersi in tutto il bacino mediterraneo e anche oltre. E per fare ciò dobbiamo risalire all’anno 525 a.C., quando l’Egitto, ad opera dell’Achemenide Cambise II° (in Greco Καμβύσης, in Persiano antico Kambūjia), figlio di Ciro il Grande, dopo la sconfitta del Faraone Psammetico III° con cui si chiuse la XXVI° Dinastia, venne a perdere la propria indipendenza, finendo sotto il giogo dei Persiani, che lo ridussero ad una semplice provincia del loro Impero. Cambise, come del resto i suoi successori, ostentò un assoluto disprezzo sia per la cultura che per le tradizioni religiose del paese conquistato, disprezzo che toccò toni sacrileghi e dissacratorî, come nel caso in cui il Re dei Re si spinse a uccidere di propria mano il Sacro Bue Apis.

Dopo circa due secoli di oppressione persiana, l’Egitto passò, nel 332 a.C., sotto il dominio di Alessandro Magno. Il Macedone, al contrario dei Persiani, si dimostrò sin da subito artefice e promotore di una politica straordinariamente tollerante e rispettosa per le tradizioni delle terre a lui soggette. Tanto che il conquistatore si spinse addirittura a recarsi a Menfi per sacrificare al Sacro Bue Apis nel Tempio di Ptah.

Con la morte di Alessandro, avvenuta a Babilonia nel 323 a.C., e con la spartizione non certo incruenta dell’immenso e variegato territorio da egli conquistato fra i suoi diadochi, l’Egitto passò – come già abbiamo visto – ad uno di essi, Tolomeo Lagide, che nel 305 a.C. si autoproclamò Sovrano della terra bagnata dal Nilo, estendendo il suo controllo fino alla Cirenaica.

Nato nell’Eordia, regione centro-occidentale della Macedonia, nel 366 a.C., e figlio di Lago, un fedele ufficiale di Filippo II° (circolava a quel tempo la voce che fosse in realtà un figlio illegittimo del Sovrano e di una sua concubina, Arsinoe, che Filippo avrebbe dato in sposa a Lago quando questa era già incinta), Tolomeo fece una brillante carriera militare, prima al fianco di Filippo e poi con Alessandro, seguendolo nelle sue campagne di conquista. Si iniziò già in giovane età ai Misteri di Samotracia e ai Misteri Eleusini e la sua sensibilità religiosa trovò piena e proficua applicazione non appena, incoronatosi novello Faraone e fregiatosi dell’appellativo di Sotere (Salvatore), iniziò a regnare sull’Egitto, dando inizio a una dinastia destinata a restare saldamente al comando del paese finché questo, con la sconfitta e la morte di Cleopatra VIIª, cadde nel 30 a.C. sotto il dominio di Roma.

Tolomeo adottò fin da subito una lungimirante e saggia linea politica tesa ad accattivarsi le simpatie e il consenso dei suoi sudditi, non solo rispettando e valorizzando le loro antiche tradizioni, ma dando anche vita a un progressivo processo di amalgamazione del patrimonio culturale-religioso e sapientale egizio con quello sopravvenuto greco-macedone; processo che ebbe come punto di partenza proprio quella grandiosa città che Alessandro aveva fondato non molti anni prima in una posizione strategica della costa mediterranea, sul luogo dove sorgeva l’antico villaggio di Rhacotis, non distante dal delta del Nilo: Alessandria. E, nell’ambito di questo processo, si presentò a Tolomeo la necessità, anche politica, di plasmare una comune idea religiosa di fondo che fosse ugualmente accettata ed accettabile sia dall’elemento indigeno che dai dominatori Greco-Macedoni, innanzitutto perché da parte di questi ultimi vi era la necessità di guadagnarsi la benevolenza degli Egiziani, i quali, profondamente attaccati alle loro credenze, non avrebbero in alcun modo tollerato l’imposizione di Divinità straniere, ma anche e soprattutto perché i Greci stessi non esitavano a riconoscere il valore e l’elevatezza della religione e della sapienza dell’Egitto.

Agli occhi di Tolomeo, la linea religiosa da adottare affinché divenisse simbolo e consacrazione di un’unione tra Greco-Macedoni ed Egiziani non poteva essere di colorito troppo “locale”, si fosse pure trattato di inserire in un nuovo Pantheon Divinità quali Amon di Tebe o Rha di Heliopolis. Inoltre, la scelta o l’eventuale predilezione di una Divinità solare avrebbe troppo richiamato alla memoria del clero locale la folle, blasfema ed eretica politica amarniana di Akhenaton. Occorreva invece focalizzare l’attenzione sul culto di Divinità “popolari”, che in tutti i distretti dell’Egitto incontrassero rispetto e venerazione, e queste Divinità non potevano che essere Osiride e Iside, le uniche in cui si compendiavano di fatto tutta la religiosità e la spiritualità egiziane.

A contribuire ad una certa assimilazione nella mentalità popolare, prevalentemente a livello profano e indubbiamente in contesti ben distinti e distanti dall’ambito iniziatico Eleusino, fra le figure di Iside e Demetra, è stato senz’altro il fatto che durante l’epoca tolemaica, parallelamente all’introduzione del culto di Serapide di cui abbiamo detto, la figura della sorella-sposa di Osiride abbia ricevuto, proprio sulla spinta di questa rivoluzione religiosa di Tolomeo, un’enorme enfatizzazione che ne ha fatto la Divinità in assoluto più popolare e più venerata dell’Egitto.

Risulta molto significativo il fatto che, come ci confermano varie fonti, fra cui principalmente Tacito[7], il principale consigliere di Tolomeo (e sicuramente il vero regista) in questa grande operazione di rinnovamento religioso sia stato il Pritan degli Hierofanti di Eleusi, l’Eumolpide Timoteo. In lui Tolomeo, che come già ho detto si era iniziato ai Misteri Eleusi, riponeva sicuramente la massima fiducia. E sarà lo stesso Timoteo, massima guida spirituale dell’Eleusinità di quel tempo, pochi anni dopo, su richiesta dello stesso Tolomeo, a istituire anche ad Alessandria d’Egitto i Sacri Misteri, con l’apertura di un Santuario direttamente dipendente da quello Madre di Eleusi e presiedendo solennemente di persona ai Riti e alle Cerimonie. Dovrebbero quindi sciacquarsi la bocca quegli storici che ancora sostengono che vi fosse, nella mentalità ellenica del tempo, una qualche forma di sudditanza nei confronti della religiosità egiziana, quando in realtà era da Eleusi che si stavano decidendo e definendo le sorti di quest’ultima.

È a mio parere da escludere, nelle intenzioni del Pritan Timoteo, la volontà di dare vita ad una mera politica sincretistica fra le Divinità delle due diverse tradizioni. Gli Eleusini, infatti, discostandosi in questo dalla menta-lità “greca” comune e popolare, hanno sempre aborrito i facili sincretismi e le forzature nell’assimilazione delle Divinità fra diverse culture e tradizioni. È molto più probabile, infatti, che Timoteo, e con lui i vertici del clero eleusino dell’epoca, ravvisasse in questo suo coinvolgimento da parte di Tolomeo soprattutto l’opportunità di estendere all’Egitto il messaggio soterico e di redenzione delle Due Dee, la Madre e la Figlia, e prova ne è il fatto che, a prescindere da un’evidente ellenizzazione e, se vogliamo, “eleusinizzazione” del mito, del culto e della ritualità di Iside e Osiride determinata dalla riforma religiosa tolemaica[8], la celebrazione dei Sacri Misteri Eleusini introdotta ad Alessandria, e le connesse pratiche di iniziazione e i percorsi eruditivi delle Scuole del nuovo Santuario, si mantennero sempre ben distinti, separati e riconoscibili dalle pratiche e dagli uffici del culto misterico di Iside e Osiride. Così, mentre in questo Egitto avviatosi ormai ad una progressiva ellenizzazione si diffondevano sempre più (non solo fra i grecofoni, ma anche presso vari strati della società egiziana) e venivano ufficialmente istituzionalizzati ad Alessandria i Misteri Eleusini, da quella stessa terra, parallelamente, si diffondeva con rapidità in tutto il mondo greco e nei dominî di Roma un culto misterico incentrato sulle figure di Iside e Osiride; un culto misterico sviluppatosi sul modello di quelli ellenici e vicino-orientali, in cui la figura di Iside appariva assai distante da quella delineata oltre 2.500 anni prima nei testi delle piramidi di Saqqara, al tempo della Vª e VIª Dinastia, e molto più vicina ai canoni ellenici.

Sposa fedele, madre sollecita, una Dea la cui fecondità non appariva selvaggiamente esuberante come nel caso, ad esempio, della Grande Madre anatolica Cibele, bensì disciplinata dai doveri e dalle contingenze della realtà sociale egiziana, in questa fase Iside apparve sempre più agli occhi dei suoi fedeli anche come meticolosa legislatrice e benefattrice del suo popolo e della sua terra, elementi questi che hanno ulteriormente portato tanto i moderni interpreti profani del suo culto e dei suoi miti quanto molti scrittori di età ellenistica e romana imperiale ad associarla alla dolce e materna, ma al tempo stesso rigorosa e determinata Demetra, istitutrice dei Misteri Eleusini; Demetra la Madre di Kore, Demetra “la Cercatrice”, che, come abbiamo visto, era impropriamente a livello popolare e profano associata alla natura, alla fertilità e all’agricoltura, ma anche la Demetra tesmofora, la legislatrice, la dispensatrice dei più corretti ordinamenti per il genere umano.

Questo sincretismo Iside-Demetra è stato esemplarmente rappresentato nel II° secolo da Lucio Apuleio nelle Metamorfosi, opera conosciuta anche con il titolo L’Asino d’Oro (Asinus Aureus), un vero e proprio testo iniziatico oltre ad essere l’unico romanzo antico in Latino pervenutoci integralmente.

 

Dettaglio del Papiro Greenfield (X° secolo a.C.), contenente il Libro dei Morti di Nesitanebisheru, figlia del sommo Sacerdote di Amon a Tebe, raffigurante i genitori di Iside e Osiride, la Dea Nut (il cielo) e il Dio Geb (la terra), separati da Shu, Dio dell’aria e del soffio vitale, su ordine di Atum, il Dio creatore
(Londra, British Museum)

Per mezzo di simbolismi e allegorie ben dosati in una narrazione non certo priva di trasporto, l’autore ci illustra l’esperienza iniziatica isiaca, attraverso la vicenda del protagonista, tale Lucio di Corinto, trasformato in un asino dall’incantesimo di una maga della Tessaglia e poi risorto a condizione umana grazie al provvidenziale intervento salvifico della Dea, una simbolica morte e rinascita, attraverso l’Iniziazione e il contatto divino. Le parole con le quali Apuleio descrive il Rito dell’Iniziazione risultano però volutamente sibilline. L’autore dimostra in questo modo la sua appartenenza ad un contesto iniziatico isiaco, ma non si spinge troppo oltre nella narrazione, in evidente segno di rispetto del voto di silenzio prestato: «Io ho raggiunto il confine della morte e, oltrepassato il limitare di Proserpina, ho navigato attraverso tutti gli elementi. Nel cuore della notte ho visto il Sole rifulgere di candida luce e mi sono appressato agli Dei Superi ed Inferi, adorandoli da vicino»[9].

Apuleio, cives romano di famiglia berbera nato a Madaura, nell’attuale Algeria, attorno al 125 d.C., definito dallo storico delle religioni Nicola Turchi «una delle figure più enigmatiche della letteratura latina»[10], fu effettivamente un personaggio complesso e controverso e sotto molti aspetti ancora oscuro ed insondato: retore, filosofo, medico, mago, sacerdote, fu soprattutto un grande Iniziato, tanto che di lui si diceva che fosse iniziato a tutti i Misteri. Ma fra gli scrittori di quel tempo, dobbiamo principalmente a Plutarco di Cheronea, nato una settantina d’anni prima di Apuleio, se l’assimilazione Iside-Demetra toccò forse il suo apice. Plutarco, prolifico autore e al contempo anch’egli grande Iniziato, dopo aver ricevuto il sale della vita a Eleusi, si iniziò anche ai Misteri di Iside e Osiride, scalandone i più alti gradi. E a questo culto misterico, che tanto aveva ripreso, se vogliamo anche in maniera illegittima ed impropria, dal bagaglio culturale, esoterico e iniziatico dei Misteri Eleusini, egli rimase sempre intimamente legato, trasportandone in numerose sue opere i fondamenti spirituali e gli insegnamenti (ovviamente nei limiti di quanto poteva essere comunicato o trasmesso a un lettore potenzialmente anche profano).

È nel sua trattato De Iside et Osiride (Περὶ Ἴσιδος καὶ Ὀσίριδος) che Plutarco si addentra (sempre nei limiti del consentito) in profonde disquisizioni teologiche riguardo alla Dea e al suo divino fratello-sposo Osiride. Particolarmente emblematica, suggestiva e significativa è l’epigrafe, menzionata da Plutarco, che si trovava su una statua di Iside a Sais, nel Basso Egitto: «Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio velo»[11].

Degli ottanta capitoli di cui l’opera plutarchea si compone, otto sono interamente dedicati ad una ricerca interpretativa del mito di Iside e Osiride, mito però fortemente rivisitato da Plutarco, come risulterà evidente ai lettori più attenti nella sintesi che più avanti riporterò, in chiave decisamente ellenica. Plutarco visitò l’Egitto, come prima di lui avevano fatto molti illustri Filosofi ed Iniziati ellenici come Solone, Platone, Talete, Eudosso, Pitagora ed Erodoto, e lo fece anch’egli con l’animo del Filosofo e dell’Iniziato, del Sacerdote e del Teologo, tutte qualifiche che del resto gli competevano, ma non riuscì a liberarsi dalla maledetta trappola del sincretismo, da quell’ansia, prettamente greca, di voler a tutti i costi assimilare gli Dei dell’Ellade a quelli dell’Egitto. Egli, interpretando il mito attraverso i propri parametri culturali, intendendo idealmente far bagnare le pendici dell’Olimpo dalle sacre acque del Nilo, lo snatura, lo deforma, lo priva della sua anima e della sua più originaria essenza, lo piega alle sue proprie convinzioni, al proprio retaggio e al proprio bagaglio culturale. E quella che emerge dalla sua narrazione non è più (o meglio, non è più soltanto) la Iside della Grande Enneade, figlia Di Nut e Geb e sorella di Nephthys, Seth e Osiride, mirabilmente descritta dagli antichi Testi delle Piramidi: è di fatto una Dea con nuove vesti, un’incarnazione della massima espressione del misticismo egizio rivestita da abiti ellenici e parlante Greco, pensata ad uso e consumo di quello spiritualismo scaturito dal melting pot alessandrino, in un Egitto ormai non solo più ellenizzato, ma anche romanizzato. La Iside descrittaci e narrataci da Plutarco, come vedremo, è di fatto la protagonista di quel culto misterico praticato dallo stesso scrittore, Filosofo ed Iniziato di Cheronea, che, sorto e generato nell’Alessandria tolemaica sul modello dei Misteri Eleusini, arriverà a diffondersi in tutte le province dell’Impero di Roma; una Dea adesso molto più vicina e somigliante a Demetra che al prototipo di Divinità femminile dell’Egitto faraonico.

È stato scritto alcuni decenni fa da Vincenzo Cilento che «Plutarco, donando il suo spirito ellenico alla interpretazione dell’Egitto, paga il debito che, a suo dire, i padri della Grecia avevan contratto con l’Egitto, attingendo di là i primordi della sua sapienza»[12]. Questa poteva essere – beninteso in tutta buona fede – anche l’intenzione di Plutarco, ma si tratta di un madornale errore di fondo scaturito, come già ho detto, dalla presunta superiorità dell’Egitto e delle sue tradizioni religiose e sapientali sul mondo ellenico. Per quanto sia riscontrabile in molti autori ellenici, soprattutto a partire dal IV° secolo a.C., una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della civiltà egiziana e delle sue tradizioni religiose, c’è assolutamente da ribadire che la civiltà greca, nello specifico la sua componente originaria ed arcaica, di derivazione minoico-lelegica, non deve niente alla terra bagnata dal Nilo in quanto a fondamenti e insegnamenti religiosi.

Non mi si fraintenda. Qui nessuno vuole mettere in dubbio l’antichità e lo splendore della civiltà faraonica e delle sue istituzioni religiose, ma occorre sfatare una volta per tutte il falso mito che vorrebbe, nell’ambito del Mediterraneo, tutte le diverse tradizioni fare capo a quella egizia. Fino almeno al V° secolo a.C., in ambito ellenico, non si riscontra alcuna “sudditanza” psicologica nei confronti di un Egitto che veniva visto, semmai, come utile partner commerciale, ma non certo come fonte di ogni sapienza e saggezza.

 

Egitto: Tetradracma d’argento di Tolomeo I° Sotere

Non si possono negare antichi scambi culturali, oltre che commerciali, fra l’Egitto faraonico e la civiltà minoica e le sue derivazioni cicladico-anatoliche ed elleniche. Del resto è documentato che la civiltà minoica intratteneva relazioni commerciali e politiche con tutte le principali potenze dell’Età del Bronzo ed è attestato che le navi della sua possente flotta veleggiavano non solo in ogni angolo del Mediterraneo, ma si spingevano anche assai più lontano, varcando abitualmente le Colonne d’Ercole e dirigendosi fino in America Settentrionale (è attestata e documentata da recenti scoperte archeologiche la presenza di numerosi pozzi minerari minoico-cretesi nel Michigan già attivi almeno dal 2450 a.C., da cui veniva estratta buona parte del rame utilizzato in Europa). Ma in ambito religioso i Minoici, forti delle proprie tradizioni, non amavano le contaminazioni ed i sincretismi, facendo sì, nel pieno rispetto della religiosità dei popoli con cui intrattenevano relazioni amichevoli, che le rispettive tradizioni e convinzioni restassero sempre sostanzialmente distinte. Del resto, ogni popolo dell’antichità era fiero e geloso delle proprie specifiche tradizioni religiose, dei propri miti e delle proprie Divinità, ed era molto meno avvezzo alla contaminazioni e ai sincretismi di quanto si possa oggi immaginare, e soprattutto di quanto lo fossero certi Greci di età ellenistica e romana imperiale. La religione minoica, improntata sull’antico culto titanico e ampiamente diffusa, oltre che a Creta, in tutta l’area dell’Egeo, sulle coste anatoliche, dalla Caria alla Misia, e nel Peloponneso e nell’intera Grecia continentale fino a tutto il XII° secolo a.C., era inoltre da millenni già strutturata e consolidata. E stiamo parlando di quella religione da cui, all’indomani della Guerra di Troia, sorgerà l’Eleusinità con i suoi Riti e i suoi Misteri.

L’insano atteggiamento di sudditanza psicologica nei confronti dell’Egitto che è ravvisabile in alcuni autori di epoca tardo-antica e la smania sincretistica che caratterizza alcuni loro scritti si svilupparono nel mondo greco soltanto in età ellenistica, toccando il suo apice in avanzata età romana imperiale.

Per meglio far comprendere la natura sincretistica (e a tratti anche caotica) del testo plutarcheo, vale la pena riportarne per intero il dodicesimo capitolo, in cui l’autore si sofferma sulla genealogia di Iside, Osiride, Arueris, Tifone e Nephthys:

«Si racconta che quando Rea si unì a Crono di nascosto, il Sole, che se ne accorse e lanciò contro di lei la maledizione di non poter generare figli né in un alcun mese né in un alcun anno. Ma Hermes, innamoratosi della Dea, si unì anch’egli a Lei e, giocando a dadi con la luna, riuscì a vincerle la settantesima parte di ogni lunazione: riunendo tutte quelle settantesime parti riuscì a mettere insieme cinque giorni, che aggiunse ai trecentosessanta dell’anno. Anche ai nostri giorni gli Egiziani li chiamano questi giorni “aggiunti” e li festeggiano come genetliaco degli Dei.

Nel primo di questi giorni nacque Osiride, e insieme a lui uscì dal ventre della madre una voce che diceva: «Ecco, il signore di tutte le cose viene alla luce». Alcuni, poi, raccontano che una certa Pamila di Tebe, andando ad attingere dell’acqua, udisse una voce provenire dal tempio di Zeus, che le ordinava di proclamare che il grande Re benefattore Osiride era nato. Per questa ragione Crono affidò a lei il compito di allevare Osiride. In seguito venne celebrata in onore di Pamila la festa detta delle Pamilie, simile a quella delle Falloforie.

Il secondo giorno nacque Arueris, che alcuni chiamano Apollo e altri invece Horos il Vecchio.

Il terzo giorno nacque Tifone, ma la sua nascita non avvenne nel momento dovuto e nemmeno per via naturale: con un colpo squarciò il fianco della madre e saltò fuori.

Il quarto giorno nacque Iside, nella stagione delle piogge, e il quinto giorno nacque Neftys, che chiamano sia Fine sia Afrodite, da alcuni anche detta Nike (Vittoria).

Osiride nacque dal Sole, come anche Arueris; Iside da Hermes, Neftys e Tifone da Crono: per questo il terzo dei giorni aggiunti era considerato nefasto, e i Re non si occupavano degli affari pubblici e non curavano la propria persona fino al calar della notte.

Dicono poi che Neftys sposò Tifone e che Iside e Osiride, innamoratisi fra loro, si unissero nell’oscurità del grembo materno ancor prima di nascere, e alcuni sostengono che Arueris fosse il frutto di questa unione, e fu chiamato Horos il vecchio dagli Egiziani, e Apollo dai Greci»[13].

Il testo poi prosegue con Osiride che si assiede sul trono d’Egitto, beneficando il paese, sollevando gli uomini dalla vita incivile, promulgando leggi e insegnando loro l’agricoltura e il rispetto per gli Dei, persuadendoli con la dolcezza della ragione e con le arti della musica e della parola piuttosto che con la forza delle armi. Ha così inizio, secondo il mito, una fase di grande splendore e prosperità per la terra bagnata dal Nilo, una fase idilliaca, una sorta di Età dell’Oro in cui gli esseri umani vivono in armonia con gli Dei, apprendendo da Osiride le regole del vivere civile e di ogni saggezza. Ma il malvagio Tifone (Seth), invidioso, trama nell’ombra contro il fratello. Raccolti settantadue congiurati e ottenuta la collaborazione di una regina dell’Etiopia menzionata come Aso, egli prende di nascosto le misure del corpo del fratello e, servendosi di esse, fa costruire una splendida cassa una splendida cassa. Invita poi tutti gli Dei a un solenne banchetto, al termine del quale i convitati sono pregati di entrare nella cassa, promessa da Tifone a colui che vi sarà perfettamente contenuto. Non appena Osiride, ignaro del tranello, entra nella cassa, il coperchio di questa viene fatto immediatamente chiudere e sigillare col piombo dal fratello, aiutato dai congiurati. La cassa sarà poi gettata nel Nilo, le cui acque la trasporteranno verso il mare. E tutto questo avvenne il giorno 17 del mese di Athyr, mentre il cielo attraversava lo Scorpione, nel ventottesimo anno di regno di Osiride sull’Egitto.

Iside, informata del delitto, si veste a lutto e corre disperatamente alla ricerca del corpo dello sposo. Vaga senza meta per giorni, non sapendo esattamente dove cercare e chiedendo notizie a tutti quelli che incontra sul suo cammino. Saranno dei bambini a rivelarLe che la cassa contenente Osiride, giunta alle foci del Nilo, è stata spinta verso il mare aperto. Viene infine a sapere che, trasportata dalle onde del mare, essa si è fermata a Byblos, in Fenicia, dove un albero è miracolosamente cresciuto tanto da proteggerla e includerla nel proprio tronco. la Dea si mette immediatamente in viaggio verso la terra dei cedri. Giuntavi, viene a sapere che l’albero che serba in sé la cassa con le spoglie del marito non è più al suo posto, e che il suo tronco si trova ora nella casa del Re della città, Malcandro, dove è stato impiegato come sostegno del tetto. Iside si siede allora, piangendo e disperandosi e senza parlare con nessuno, presso una fonte, dove incontra le schiave della Regina Astarte che vi si sono recate per attingere acqua. Dopo essere entrata in confidenza con loro ed avendo intrecciato le loro chiome, le avvolge con un soavissimo profumo che emanava dal suo stesso corpo. La regina, saputo ciò, chiede di conoscere la straniera, accettandola poi presso la reggia come nutrice del principino.

Iside allevava il bambino dandogli da succhiare la punta del dito al posto del seno, e di notte immergeva nelle fiamme la parte mortale del suo corpo, per conferirgli l’immortalità. Si trasforma poi in rondine, volando intorno alla colonna e gemendo. Ma la Regina, che una notte sta osservando la scena, quando vede il bambino in preda alle fiamme si mette a gridare, interrompendo l’azione della Dea e privando così il figlio del dono dell’immortalità. Iside allora si rivela nella sua vera natura e chiede che le venga data la colonna del tetto. Ottenutala, sfronda i rami di erica che l’avvolgono, la aprì e ne estrae la preziosa cassa. Affida poi la colonna al Sovrano, dopo averla cosparsa di unguento profumato e avvolta in una pezza di lino.

 

Statua marmorea di epoca romana imperiale rinvenuta nella Villa Adriana di Tivoli,raffigurante una Dea Iside ormai fortemente romanizzata
(Roma, Musei Capitolini)

Ci riferisce Plutarco che, ancora ai suoi tempi, gli abitanti di Byblos veneravano questo tronco, custodito come reliquia all’interno di un Tempio eretto in onore della Dea.

La narrazione prosegue con Iside che si getta sulla cassa, gridando talmente forte che il bambino che stava allevando, il più giovane dei figli del Re, resta ucciso dalle sue stesse grida della Dea. In seguito, caricata su una nave la cassa, si imbarca per fare ritorno in Egitto, scortata dal figlio maggiore di Malcandro e Astarte.

Giunta in un luogo solitario, Iside toglie i sigilli dalla cassa e, apertala, bacia tra le lacrime il volto dell’amato fratello-sposo, mentre il figlio del Re di Byblos, che incautamente si era avvicinato spinto dalla curiosità, fulminato dallo sguardo della Dea cade a terra morto all’istante.

Avvenuto ciò, la Dea prosegue il suo viaggio verso l’Egitto. Dovendosi recare a Butis, sul delta del Nilo, per rincontrare il figlio Horus, dove la Dea Uadjet[14] lo ha accudito ed allevato durante la sua assenza, Iside depone la cassa con il corpo di Osiride in un luogo nascosto, proponendosi di tornare poi a recuperarla. Ma Seth, mentre andava a caccia di notte, la trovò e, riconosciuto il corpo del fratello, lo fece in quattordici pezzi, che poi disperse. Venuta a sapere l’accaduto, Iside si mette immediatamente alla ricerca dei pezzi e, attraversando le paludi del delta con una zattera di papiro, riesce a recuperarli a dare ad essi degna sepoltura. Ed è questa la ragione, secondo Plutarco, per cui in Egitto veniva attestata la presenza di numerose tombe di Osiride.

L’unica parte del corpo del Dio che Iside non riesce a ritrovare è il membro virile, poiché era stato gettato per primo da Seth nel fiume, dove era stato mangiato dai pesci, ma la Dea riesce comunque a sostituirlo con uno artificiale.

Più avanti, nel testo, troviamo infine Horus, figlio di Iside e Osiride, che, divenuto adulto, con l’aiuto e la necessaria preparazione fornitagli dal padre ritornato dall’oltretomba, sfida il malvagio Seth e lo vince. Come riporta Plutarco, la battaglia durò molti giorni e, al termine di essa, Seth viene consegnato da Horus a Iside in catene. Ma la Dea non solo non lo mette a morte, ma decide addirittura di lasciarlo libero. «Horus – scrive Plutarco – non seppe accettare questa decisione: alzò le mani sulla madre e le strappò dalla testa la corona regale. Allora Hermes pose sul suo capo un elmo a forma di testa di bue. Horos fu accusato di illegittimità da Tifone, ma Hermes sostenne i diritti del giovane e gli Dei sentenziarono in suo favore. Tifone, poi, fu battuto in altre due battaglie. Iside si unì a Osiride anche dopo la sua morte, e partorì un figlio prematuro e rachitico negli arti inferiori, Arpocrate»[15].

Molto interessante risulta essere anche questa interpretazione dal taglio sorprendentemente “evemeristico” che Plutarco ci fornisce riguardo ai fatti narrati:

«Quando Iside ebbe ritrovato Osiride e fatto diventar grande Horus, che si irrobustiva sempre più grazie alle esalazioni, ai vapori e alle nuvole, Tifone fu così sconfitto, ma non certo annientato. Questo perché la Dea, Signora della terra, non volle annullare completamente il principio opposto all’umidità, ma intese unicamente ridurlo e poi lasciarlo di nuovo libero, per mantenere intatta la composizione dell’atmosfera. E infatti il cosmo non può essere perfetto se viene a mancare in esso l’elemento igneo. Anche se non è espressamente ammesso dalla religione egiziana, non si può tuttavia respingere la validità del racconto secondo cui Tifone all’inizio aveva il predominio sul regno di Osiride. L’Egitto, infatti, era un mare: per questo nelle miniere e sulle montagne si trovano ancora delle conchiglie. Tutte le sorgenti, poi, e tutti i pozzi, che sono tanti, hanno ancora acqua amara e salata, come se lì si fosse raccolto un vecchio residuo del mare che c’era prima. Col tempo Horus ebbe la meglio su Tifone, vale a dire che il Nilo, grazie al benefico avvento delle piogge, riuscì a respingere il mare, a mettere allo scoperto la pianura e a riempirla di depositi alluvionali»[16].

Interessante anche rilevare quanto riporta Plutarco nel quarantaduesimo capitolo:

«La morte di Osiride corrisponde, secondo il mito egiziano, al diciassette del mese, quando cioè il plenilunio si compie e risulta perfettamente visibile. Per tale ragione i Pitagorici chiamano “ostacolo” questo giorno, e hanno in odio il diciassette più di ogni altro numero. Esso infatti cade fra il sedici, che è un quadrato, e il diciotto, che è un rettangolo, i soli fra i numeri a formare figure piane che abbiano il perimetro uguale all’area; il diciassette si pone come un ostacolo fra di loro, e li separa uno dall’altro, e spezza la proporzione di uno e un ottavo in intervalli diseguali. Gli anni della vita di Osiride, o forse, a seconda delle interpretazioni, quelli del suo regno, furono ventotto: tale infatti è il numero delle lunazioni e anche quello delle giornate necessarie perché il ciclo lunare si compia. Il tronco che viene tagliato nel rito detto “Sepoltura di Osiride” serve a costruire un’urna funeraria a forma di falce di luna: questo perché la Luna, quando si avvicina al Sole, prende l’aspetto di una falce fino a diventare invisibile. Le quattordici parti in cui Osiride viene smembrato, invece, alludono ai giorni in cui l’astro scompare, dal plenilunio fino al novilunio. Il giorno in cui la Luna ricompare, dopo aver superato finalmente il Sole ed essere sfuggita ai suoi raggi, essi lo chiamano “Bene senza fine”. In effetti Osiride è un benefattore, e tra le varie qualità a cui il suo nome allude, non ultima è quella forza benefica e produttiva che gli viene riconosciuta. L’altro nome del Dio, Onfis, secondo Ermeo va interpretato appunto come “benefattore”»[17].

A prescindere da quanto sin qui osservato e riportato, ai lettori particolarmente attenti ed eruditi e in possesso delle corrette chiavi di lettura, o comunque non digiuni di elementi mitologici e teologici dell’Eleusinità, non saranno certo sfuggiti i numerosi punti di contatto e le similitudini fra il testo di Plutarco e l’Inno Omerico a Demetra. Le rispettive narrazioni iniziano, infatti, con la scomparsa di una figura cara e con la disperata ricerca di questa da parte della Divinità in un viatico di dolore che dura varî giorni. Nel caso di Demetra, come sappiamo, protagonista della scomparsa è la figlia Kore, rapita da Ade per ordine di Zeus, mentre nel caso di Iside lo scomparso è il fratello-sposo Osiride. Entrambe le Dee, sia Demetra che Iside, cercano disperatamente per giorni la persona cara scomparsa, fino a che vengono a conoscenza della verità, e entrambe, assunta forma umana, intraprendono un viaggio per mare, la prima diretta a Eleusi, la seconda a Byblos. E da qui in poi le analogie fra le narrazioni si fanno sempre più marcate: entrambe le Dee, arrivate a destinazione, si siedono affrante e disperate presso una fonte, dove incontrano quattro fanciulle lì giunte per attingere acqua: Demetra le quattro figlie del Re di Eleusi Celeo e della Regina Metanira, Iside le quattro schiave del Re di Byblos Malcandro e della Regina Astarte. In entrambe le narrazioni le Dee vengono invitate dalle quattro ragazze a seguirle al palazzo reale, dove vengono assunte come nutrici del principino. Ed entrambe, svolgendo la mansione loro affidata, operano segretamente per conferire al bambino il dono dell’immortalità, immergendolo durante la notte in un sacro fuoco. Entrambe vengono poi sorprese dalla Regina (Metanira nell’Inno Omerico a Demetra e Astarte nella narrazione plutarchea) durante tale atto, e in entrambe i casi l’operazione viene interrotta dalle grida di terrore delle rispettive madri. Infine, in entrambe le narrazioni, le Dee si manifestano nella loro reale natura e identità, esprimendo la propria volontà: Demetra ordina che le venga edificato un Tempio, Iside chiede che le venga consegnata la cassa contenente il corpo di Osiride, contenuta come abbiamo visto nella colonna lignea che sorregge il tetto del palazzo.

Da qui in poi le narrazioni tornano a divergere e a rientrare nel loro “alveo”, anche se mantengono un altro elemento di fondo del resto comune a tutti i culti di carattere misterico dell’area mediterranea e vicino-orientale: quello della morte e della rinascita. Sia nello hieros-logos Eleusino che in quello isiaco narratoci da Plutarco, infatti, le rispettive figure scomparse fanno ritorno dall’aldilà, ma soltanto in maniera parziale, restando in parte legate e vincolate al regno dei morti.

Ricostruzione dell’Iseo Campense di Roma come si presentava nel 95 d.C. (da una stampa del 1917)

Il testo plutarcheo rappresenta emblematicamente non una derivazione della vicenda di Demetra da quella di Iside, come erroneamente hanno in maniera superficiale ipotizzato molti storici delle religioni, ma l’esatto opposto. Ci troviamo infatti di fronte ad un palese esempio di quella “eleusinizzazione” del mito di Iside e Osiride a cui poc’anzi ho fatto riferimento. “Eleusinizzazione” determinatasi proprio in età ellenistica e frutto delle operazioni di rivoluzione religiosa attuate ad Alessandria da Tolomeo I° (Iniziato ai Misteri Eleusini), con la “regia” ed i consigli del Pritan degli Hierofanti di Eleusi Timoteo. Il De Iside et Osiride, ben lungi dall’essere frutto della fantasia di Plutarco, rispecchia fedelmente un modello di hieros-logos adottato in ambiente alessandrino per il culto misterico isiaco, al quale anche il grande erudito di Cheronea si iniziò. Uno hieros-logos frutto della riforma religiosa tolemaica che risulta assai distante dai miti di Iside e Osiride più antichi, come ad esempio quelli riportati nei Testi delle Piramidi del Tardo Antico Regno e del Primo Periodo Intermedio dell’Egitto (2375 – 2345 a.C.), con l’inserimento – talvolta anche improprio e decisamente fuori contesto – di particolari pescati dallo hieros-logos Eleusino. Particolari, sì, dall’alto valore simbolico ed esoterico se letti nel loro contesto originario, ma il cui inserimento nella vicenda isiaca poteva avere solo ed esclusivamente la funzione di “internazionalizzare” il culto e renderlo così fruibile alle masse greche o grecofone.

L’incontro fra Demetra e le quattro figlie di Celeo e Metanira presso il sacro pozzo Kallichoron ha un preciso significato che va oltre il mero invito a corte che ne deriva, poiché – come meglio vedremo in un altro capitolo del volume[18] – tali fanciulle sono destinate a divenire le mogli di quattro fra i primi discepoli della Dea e fondatori di altrettante Tribù e Coorti Primarie dell’Eleusinità Madre. Anche la volontà, da parte di Demetra, di conferire a Demofoonte, il figlio dei Sovrani di Eleusi, l’immortalità e l’invincibilità mediante l’immersione notturna in un fuoco sacro, ha un preciso scopo. Demetra, secondo gli insegnamenti delle Scuole Misteriche Eleusine, aveva previsto l’imminente Guerra di Troia e, se l’operazione magica di conferimento dell’immortalità e dell’invincibilità al fanciullo non fosse stata bruscamente interrotta dalle grida e dall’intervento della madre e fosse invece andata a buon fine, Demofoonte, una volta adulto, sarebbe stato il prescelto in grado di sconfiggere gli Achei, ribaltando così le sorti del conflitto in favore dei Troiani. Tale operazione, invece, praticata da Iside al figlio dei Sovrani di Byblos, non trova alcun apparente significato. E potremmo continuare a lungo, elencando esempi analogici di particolari che nello hieros-logos Eleusino hanno un senso logico e compiuto, mentre non lo trovano in questa versione ellenizzata del mito isiaco.

Ma ormai, le porte del sincretismo religioso erano state spalancate e questo nuovo (o, se vogliamo, rinnovato) culto misterico si stava diffondendo a macchia d’olio ben oltre i confini dell’Egitto. Del resto, l’adozione della lingua Greca stabilita da Tolomeo e implementata dai suoi successori per le pratiche e le liturgie del culto, per quanto potrebbe apparire come un elemento secondario, si dimostrò un fattore determinante per la sua diffusione in tutto il Mediterraneo, permettendone l’accessibilità a milioni di persone, dalla Grecia all’Anatolia, dall’Algeria alla Siria, da Creta alla Sicilia e all’intera Italia Meridionale; in sostanza ovunque si parlasse o si comprendesse il Greco e i suoi numerosi dialetti.

Il papiro 1380 di Ossirinco, facente parte di una cospicua raccolta di testi e frammenti manoscritti databili tra il I° e il VI° secolo d.C. rinvenuti in un’antica discarica fra la fine del XIX° e gli inizi del XX° secolo in quella che fu la capitale del XIX° distretto dell’Alto Egitto, è emblematico del ruolo straordinario a cui era assurta Iside in ogni angolo del Mediterraneo. Il testo in oggetto, databile al tardo II° secolo e noto come Invocazione a Iside, è sicuramente un brano liturgico del culto misterico della Dea. Merita di essere qui riportato poiché è emblematico del livello di sincretismo religioso raggiunto in quegli anni:

«Io invoco Te, o Iside, che sei chiamata presso il Delta la Dispensatrice di Grazie, a Ermopoli la Bella di Forme e la Santa, a Naucratis la Senza Padre, la Gioiosa, la Salvatrice Onnipotente, la Grande, a Pefrem la Sovrana Iside, la Sovrana Vesta, la Signora di tutta la Terra, a Bubasti l’Elemento Primordiale, nell’Iseo di Sethroito la Salvatrice degli uomini, in Eraclea la Signora del Mare, a Pelusio la Ormeggiatrice, in Arabia la Grande Dea, a Roma la Guerriera, a Gaza la Patrona della Navigazione, presso i Traci e a Delo la Dea dai Molti Nomi, presso gli Indiani Maia, in Fenicia la Dea Sira, nel Ponto la Senza Macchia, nella Persia Anahita.

Guardiana e guida dei mari e Signora delle foci dei fiumi, o Signora Iside, la più grande delle Dee, il tuo primo nome è Sothis!

Tu conduci il Sole dall’Oriente all’Occidente e tutti gli Dei ne gioiscono. Allo spuntare delle stelle tutti gli abitanti della Terra indefessi Ti venerano, e gli animali sacri del Santuario di Osiride si rallegrano al Tuo nome!

Tu mandi la rovina a chi vuoi, ma ai rovinati dai grazia e tutte le cose purifichi. Ogni giorno hai Tu fissato per la gioia. Tu hai disposto i luoghi umidi e secchi di cui l’universo si compone. Tu hai ricondotto felicemente Tuo fratello Osiride pilotando da sola e degnamente seppellendolo. Tu hai stabilito i Tuoi Santuari in tutte le città, per sempre, e a tutti hai dettato le norme ed un ciclo annuale perfetto. Tu hai reso immortale il grande Osiride e a tutta la Terra hai insegnato i Sacri Riti (…)»[19].

Pompei: affresco del Tempio di Iside raffigurante la Dea mentre riceve Io a Canopo (I° secolo d.C.)

La straordinaria diffusione al di fuori della loro terra d’origine di questi rinnovati Misteri di Iside e Osiride, ormai fortemente ellenizzati nei contenuti, nella lingua della liturgia e nei numerosi richiami ai Misteri Eleusini su cui ci siamo poc’anzi soffermati, al di là delle esigenze politiche della dinastia Tolemaica e delle reali intenzioni del Pritan degli Hierofanti Timoteo, che in maniera determinante aiutò e assistette Tolomeo I° nella sua riforma religiosa, fu un segno evidente della loro straordinaria vitalità. Essi, compendiando molti aspetti tratti anche da altri culti misterici ellenici e vicino-orientali, seguirono le numerose rotte mercantili che, sciamando da Alessandria, andavano a toccare, uno dopo l’altro, tutti i grandi e piccoli porti del Mediterraneo. Così, in breve tempo, non vi fu porto, scalo o grande città, in Oriente e in Occidente, che non avesse almeno un Tempio o un Santuario isiaco. Cominciando dall’area elladica, vediamo infatti che il culto è presente al Pireo sin dal IV° secolo a.C. e ad Atene il primo Iseo viene edificato nel 270 a.C., in ringraziamento dell’aiuto prestato da Tolomeo Filadelfo alle polis della Grecia contro la minaccia macedone. Sorsero inoltre luoghi di culto isiaci a Cheronea e a Orcomeno, in Beozia, già nel 216 a.C. ed in tali località Iside e Serapide divennero simbolo dell’emancipazione degli schiavi che si iniziavano ai loro Misteri. E Delo, la “capitale” religiosa delle Cicladi, sacra alla Dea Titana Leto (che vi aveva partorito Febo e Artemide) e baluardo dell’Eleusinità, vide sorgere sul suo territorio uno dei più grandiosi Santuari isiaci del mondo antico.

È impensabile che il Pritan degli Hierofanti Timoteo, e con lui l’intero clero dell’Eleusinità, non avesse previsto una simile e rapida diffusione al di fuori dell’Egitto di quel culto misterico che tanto aveva contribuito, in sintonia con Tolomeo I°, a “ristrutturare” e ad “ellenizzare”. Un culto misterico che, diffondendosi un po’ ovunque nell’area mediterranea e, successivamente, anche nell’Europa continentale e nel Vicino Oriente, avrebbe potuto potenzialmente fare “concorrenza” ai Sacri Misteri delle Due Dee, vale a dire all’Eleusinità Madre, e alle sue diramazioni e forme collaterali “Figlia”, quali quella Orfica e Samotracense, erodendone, almeno a livello popolare, la base dei fedeli. Ma in realtà non vi fu alcuna forte concorrenzialità fra Misteri Eleusini e Misteri Isiaci, come non ve ne fu, del resto, fra l’Eleusinità Madre e le sue forme e derivazioni “Figlia”. La particolare spiritualità e la mentalità religiosa, come del resto la stessa forma mentis, delle popolazioni mediterranee dell’età ellenistica e romana, fondate su una Paideia improntata sulla Filosofia, sulla tolleranza e sulla naturale apertura a Tradizioni religiose affini alle proprie, faceva sì che molti fedeli ed Iniziati richiedessero di farsi iniziare anche ad altri culti misterici diversi, ma comunque affini al proprio, anche e soprattutto per espandere ed imple-mentare la propria erudizione, la propria conoscenza e per accrescere la propria via esperienziale di avvicinamento e di contatto con il Divino. Ne sono fulgido esempio i più grandi eruditi di quel tempo, dagli stessi Plutarco ed Apuleio fino ad arrivare a Vettio Agorio Pretestato e ad Imperatori come Adriano e Giuliano.

Sorge allora spontaneo chiedersi quale fu il senso più profondo ed il reale significato dell’operazione a cui si prestò il Pritan Timoteo nel suo ruolo di principale consigliere della riforma di Tolomeo.

A mio parere il reale intento della massima autorità e guida dell’Eleusinità andava ben oltre un disinteressato aiuto al suo fedelissimo Sovrano dell’Egitto e alla mera istituzionalizzazione, anche nella Terra del Nilo, dei Misteri Eleusini, con l’apertura del grandioso Santuario di Alessandria. Ritengo piuttosto, anche se non vi sono documenti ufficiali che lo attestino, che le intenzioni di Timoteo fossero proprio determinare la grande diffusione – che di fatto è poi avvenuta – di un culto misterico sostanzialmente ellenizzato ed in parte “eleusinizzato”, che si affiancasse senza troppi problemi ai culti Eleusini e che al contempo fosse capace di catalizzare consensi e proseliti in aree e in strati sociali non già coperti dall’Eleusinità, togliendoli ai culti di matrice olimpica e patriarcale, veri nemici ed avversari (ed unici, almeno fino all’avvento alla diffusione della superstitio cristiana), della religiosità titanica di cui l’Eleusinità era espressione.

Se la mia ipotesi è corretta, possiamo tranquillamente affermare che l’operazione fu un successo, perché il culto isiaco si diffuse ovunque con grande rapidità. Si attestò in Italia già dal 105 a.C., con l’edificazione degli splendidi Isei di Pompei e di Pozzuoli, in una regione, la Campania, in cui questo culto si radicò profondamente e dalla quale si diffuse poi a Roma, dove già verso l’80 a.C. è attestata una prima confraternita isiaca.

Il culto misterico greco-egizio, nella sua prima fase di espansione nei territori soggetti all’Urbe, dove attecchì soprattutto fra le masse popolari, non fu inizialmente visto di buon occhio dalle autorità della Repubblica, le quali emanarono addirittura alcune ordinanza di soppressione (nel 58, nel 54 e nel 50 a.C.); ordinanze però da intendersi più come atti formali che come vere azioni repressive, poiché non sussistevano più quelle ragioni, sia strategico-politiche che di sicurezza che avevano portato, nel 185 a.C., alla giusta repressione delle pratiche del culto dionisiaco. Infatti, dopo queste iniziali resistenze, non trovò di fatto più ostacoli alla sua diffusione e propagazione, divenendo in breve tempo uno dei culti misterici più capillarmente diffusi in tutte le provincie dell’Impero, secondo soltanto ai Misteri Eleusini, condividendo con essi, dopo l’avvento e l’imposizione del Cristianesimo, la terribile fase delle persecuzioni.

La colossale testa di Isis-Sothis-Demeter, un tempo collocata nel ginnasio di Villa Adriana a Tivoli, oggi nei Musei Vaticani

 

 

NEGOZIO

 

 

[1] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, I°.

[2] Anna Maria Corradini: Mysteria: i Misteri al femminile nella Sicilia antica. Fonti letterarie e archeologiche. Ed. Tipheret, Acireale-Roma 2011.

[3] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, V°, 69.

[4] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, I°, 29.

[5] Pausania: Periegesi della Grecia: I°, 2, 6.

[6] Apollodoro: Biblioteca, III°, 14, 6.

[7] Tacito, Storie, IV°, 83.

[8] Gli evidenti aspetti di ellenizzazione e di eleusinizzazione del culto misterico di Iside e Osiride sviluppatosi con Tolomeo e successivamente diffusosi in tutto il Mediterraneo saranno prese in esame nelle prossime pagine, con l’analisi del De Iside et Osiride di Plutarco.

[9] Lucio Apuleio: Le Metamorfosi.

[10] Nicola Turchi: Le Religioni dei Misteri nel mondo antico. Ed. Fratelli Melita, Genova 1987.

[11] Plutarco di Cheronea: De Iside et Osiride, IX°.

[12] Vincenzo Cilento (a cura di): Plutarco, diatriba isiaca e Dialoghi Delfici. Ed. Sansoni, Firenze 1962.

[13] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XII°.

[14] Uadjet, il cui nome significa letteralmente “del colore del papiro”, chiamata Buto o Butis dai Greci che la assimilarono alla Dea Titana Leto, è una Divinità antichissima il cui culto viene ritenuto originario di Per-Uadjet, sul delta del Nilo. Raffigurata con le sembianze di un cobra, con l’unificazione dei segni predinastici divenne la protettrice del Faraone e la personificazione del Basso Egitto, come la Dea Nekhbet, raffigurata con le sembianze di un avvoltoio, impersonificava l’Alto Egitto. Le due Dee, come personificazioni e patrone delle due parti della Nazione, venivano infatti ritratte spesso insieme.

A Uadjet veniva associato inoltre l’Ureo, simbolo della regalità a forma di serpente steso in posizione di sfida, pronto a sputare veleno su tutti i nemici del Sovrano o a incenerirli con il suo sguardo infuocato. Secondo varie tradizioni, a Udjet Iside avrebbe affidato il figlio Horus (secondo altre versioni, invece, sia Horus il Vecchio che Horus il Giovane), mentre era alla ricerca del corpo di Osiride, e la Dea vegliava su di lui sull’isola di Chemmis, situata in un grande lago nei pressi della città di Butis. Tale isola, coperta di palme e di altri alberi, affinché meglio potesse proteggere il figlio di Osiride dalla malvagità di Seth, venne resa dalla Dea fluttuante, un interessante parallelismo con l’isola egea di Delos, dove Leto partorì, secondo la Tradizione Eleusina, Febo e Artemide. Anche Delos, infatti, secondo la Tradizione, era un’isola fluttuante che venne poi ancorata al fondale marino.

[15] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XIX°

[16] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XL°.

[17] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XLII°

[18] Vedasi il capitolo Le Tribù e le Coorti Primarie di Eleusi.

[19] The Oxyrhynchus Papyri (edd. B.P. Grenfell – A.S. Hunt) XI (1915) n. 1380.

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Da Eleusi a Firenze – La Trasmissione di una Conoscenza Segreta

Fra i vari culti misterici dell’antichità, nessuno mai raggiunse una fama e al contempo una segretezza ed una impenetrabilità ad occhi profani pari a quella dei Misteri Eleusini. Tanto che è stato affermato dai più autorevoli studiosi che in essi poggiano le basi stesse della cultura e della tradizione occidentali. Se è corretto parlare di Misteri Eleusini, si dovrebbe – in senso più ampio – parlare di Eleusinità, per rendere l’idea della portata di una tradizione che ha saputo perpetuarsi in maniera ininterrotta dalla più remota antichità fino ai nostri giorni, attraversando indenne come un fiume carsico i secoli bui del Medio Evo, fino a riemergere in tutto il suo splendore nel Rinascimento. Prendendo atto delle limitazioni della saggistica sull’argomento e della totale mancanza in essa di una prospettiva esoterica ed iniziatica, Nicola Bizzi ha deciso di mettere mano a quest’opera, frutto di decenni di studi e di un particolare percorso personale. L’autore, infatti, oltre ad essere uno storico nella vita profana, appartiene per tradizione familiare e per esperienza iniziatica, alla tradizione misterica degli Eleusini Madre.

Approfondimento (dal precendente La Scienza di Atlantide)  + Estratto:
I Misteri Eleusini specie per spiecie // I Minoici in America e la Memoria di una Civiltà Perduta