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Luciano di Samosata e i primi viaggi spaziali

Luciano di Samosata (Λουκιανός ὁ Σαμοσατεύς), scrittore, retore e filosofo siro di lingua greca, celebre per la sua arguzia e per la forte irriverenza dei suoi corrosivi scritti satirici, è stato uno dei più eclettici e poliedrici autori che caratterizzarono il II° secolo d.C., e specialmente il periodo della Seconda Sofistica. Vicino all’Epicureismo, ci ha lasciato delle opere fondamentali della letteratura romana imperiale, tra cui la Storia Vera, un racconto onirico-visionario e fantastico di viaggi al di là delle Colonne d’Ercole e addirittura nel cosmo, i Dialoghi degli Dei, i Dialoghi marini, i Dialoghi dei morti, i Dialoghi delle cortigiane, e il trattato Come si deve scrivere la storia, un’esortazione ad una storiografia fondata sull’obiettività e lontana da ogni forma di adulazione dei potenti. Le sue opere sono in genere caratterizzate da un sottile intento critico e da una marcata vena satirica nei confronti delle scuole ufficiali così come dei pregiudizi dell’opinione volgare.

Tra le sue tante attività, si dedicò anche alla raccolta di storie e leggende della tradizione greca ed orientale. Emblematico a riguardo è il suo trattato De Dea Syria, dedicato al sentimento religioso e ai culti della sua terra natia e incentrato sulla misteriosa figura della Dea Atargatis, molto venerata nelle provincie orientali dell’Impero. E a quanto pare fu lui a “creare” la figura di Filippide, il soldato greco che corse ad Atene dopo la battaglia di Maratona senza fermarsi per poter annunciare Nike! Nike!” (“Vittoria! Vittoria!”) e spirare subito dopo.

Luciano nacque intorno al 120 d.C. a Samosata (l’odierna Samsat, nella Turchia sud-orientale), un’antica e florida città della provincia romana della Siria, che vantava un passato da capitale dell’antico regno armeno-ellenistico di Commagene (caduto per mano di Vespasiano nel corso del I° secolo), in una modesta famiglia siriaca. Benché, con ogni probabilità, fosse di madrelingua siriaca (come al tempo lo era la maggioranza della popolazione locale), egli produsse tutto il corpus della propria opera in Greco, con la maggior parte dei propri scritti redatti in dialetto attico, alquanto in voga durante il periodo della Seconda Sofistica, rivolgendosi quindi essenzialmente ad un pubblico di lingua e cultura greca. Ciò nonostante, egli in vita non si definì mai “greco”, pur dimostrando tutta una serie di caratteristiche della propria personalità intellettuale indubbiamente ellenistiche, né tantomeno “romano”, e non rinnegò mai le proprie origini “barbare”; anzi, spesso e volentieri concentrò la propria invettiva satireggiante proprio sulle tante differenze ed aspetti contrapposti tra la sua cultura natía e quella greca e tra queste due e la nuova componente romano-latina.

Stando a quanto da egli stesso asserito in una sua orazione, Il Sogno, da giovane ebbe, seguendo la tradizione della famiglia materna, una breve e deludente esperienza nel laboratorio di scultura dello zio, dal quale il futuro scrittore fu cacciato dopo aver distrutto una lastra di marmo che doveva essere sgrossata. Scoperta dunque la propria vocazione letteraria, egli studiò presso i sofisti dell’epoca, nell’Asia Minore ionica, la grammatica e la retorica, assicurandosi una perfetta assimilazione della lingua Greca e dei principi culturali dell’Ellenismo.

Successivamente fece moltissimi viaggi, in qualità di maestro di retorica e conferenziere o come ambasciatore della sua città natale, in Asia Minore, Grecia, Italia e Gallia. Inoltre svolse l’attività di avvocato in Antiochia di Siria (155-158). Nel 159 fu inviato come ambasciatore a Roma, dove ebbe l’occasione di entrare in contatto con il filosofo medioplatonico Nigrino, da cui fu influenzato. Tornato nel 160 ad Antiochia, vi rimase fino al 162, pur recandosi talvolta in Grecia. Dal 173 al 176, in veste di segretario della Cancelleria imperiale, si trasferì in Egitto. Dopo questo incarico sappiamo che si stabilì definitivamente ad Atene, dove morì in una data imprecisata tra il 180 e il 192.

La Storia Vera (Ἀληθῆ διηγήματαì, Alēthê diēghémata, propriamente “Storie vere”), è l’opera più celebre di Luciano ed è considerata il suo capolavoro e al contempo uno dei testi più interessanti della letteratura greca di età romana imperiale. Si tratta di un’opera narrativa in due libri, un vero e proprio romanzo fantastico (è stato giudicato il primo romanzo di fantascienza della storia), con sorprendenti tratti ironici e parodistici, ma non per questo scevro di profondi contenuti mitici, simbolici e allegorici.

La stesura del testo viene ascritta all’ultima fase della produzione lucianea, attorno al 180 d.C. Potrebbe quindi essere di poco posteriore a una delle ultime opere di Luciano, Come si deve scrivere la storia, trattatello che denuncia l’eccessiva adulazione, piaggeria e falsità della storiografia imperiale a lui contemporanea. Agli storiografi intenti a scrivere una storia agiografica e scadente, più fantasiosa che altro, sulla guerra tra l’Imperatore Lucio Vero e Volgese III° di Armenia (162-165 d.C.), Luciano rispose per antifrasi umoristica, con un racconto intessuto di iperboliche gesta, fantastiche invenzioni, colossali menzogne, del tutto oneste, però, perché dichiarate come tali fin dal proemio. Bersaglio di Luciano non sono solo gli storiografi, ma anche gli scrittori di racconti fantastici, citati nel proemio: Ctesia di Cindo, Erodoto, Iambulo, e persino Omero, il cui Ulisse, a suo dire, si dimostra maestro nell’arte della cialtroneria. L’intento di Luciano non è quello di screditare tali autori, ma di mostrare che nell’invenzione fantastica, in letteratura, può non esserci alcun limite. E riesce a farlo in maniera esemplare, tanto che Luciano si può considerare il vero εὑρετὴς del romanzo fantastico, un genere che tanto seguito avrebbe avuto letteratura dei secoli successivi: dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto alle peripezie dei giganti Gargantua e Pantagruel dei romanzi di François Rabelais, dalle paradossali e incredibili Avventure del Barone di Münchhausen di Rudolf Erich Raspe ai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. Per non parlare di Richard Adams Locke, con il suo capolavoro Delle scoperte fatte nella Luna del dottor Giovanni Herschel, del genio creativo di Jules Verne, autore di opere quali Dalla Terra alla Luna, Viaggio al centro della Terra e Ventimila leghe sotto i mari, o delle opere di Charles Nodier e Herbert George Wells. Anche se forse, ad aprire il filone, furono Dionisio di Mileto, con il suo Viaggio ad Atlantide (opera considerata perduta fino al 1962, poi fortuitamente ritrovata e, infine, nuovamente fatta scomparire in circostanze mai chiarite), Antonio Diogene, con Le incredibili meraviglie al di là di Tule, e Apollonio Rodio con le sue Argonautiche. Tre opere, queste, che molto probabilmente sono state per Luciano una preziosa fonte d’ispirazione.

Non a caso, tutti gli autori che abbiamo sopra elencato, senza eccezione alcuna, furono anche degli iniziati. E, nelle loro opere – come d’altronde avviene anche per Luciano -, il fantastico spesso si rivela, più che un genere letterario fine a se stesso, un mezzo, un vero e proprio strumento, per veicolare e comunicare precisi messaggi a chi detiene le corrette chiavi di lettura per comprenderli. Esattamente come avveniva per molti pittori del Rinascimento.

La Storia Vera di Luciano è un testo che non finisce mai di stupire il lettore, neanche dopo molteplici letture. Allo stesso modo in cui un’opera come Le Metamorfosi (o Asino d’oro) di Lucio Apuleio anticipa situazioni, simboli, messaggi e allegorie poi utilizzate dal libero muratore Carlo Lorenzini in Pinocchio, Luciano riprende, utilizza e spesso anche anticipa molti topos letterari e molte simbologie della mitologia, della Tradizione e della letteratura (dall’attraversamento delle Colonne d’Ercole al ventre della balena, dai Campi Elisi alla Terra dei Beati, dal Continente degli Antipodi alle guerre spaziali e ai viaggi sulla Luna).

Nel prologo Luciano afferma che racconterà una storia fantastica per rinfrescare la mente da letture più impegnative e che l’unica cosa vera del racconto è che è tutto falso. L’autore inizia, quindi, nel Primo Libro, con la descrizione del suo viaggio immaginario assieme a cinquanta compagni oltre le Colonne d’Ercole, animato come Odisseo dal desiderio di conoscere cose nuove. Subito l’equipaggio è colto da una tempesta di vento che sballotta la nave per settantanove giorni finché all’ottantesimo, al termine della tempesta, riescono a sbarcare su un’isola misteriosa. Scoprono una colonna di bronzo con un’iscrizione greca che attesta che Eracle e Dioniso hanno viaggiato fin lì e impronte di piedi giganti. Qui si imbattono in un fiume di vino dove nuotano pesci che ne prendono il sapore e in un gruppo di esseri che hanno forma di viti dai fianchi in giù e di donne dai fianchi in su.

Lasciata quest’isola, la nave si imbatte in un tifone e viene sollevata in aria fino a tremila stadi d’altezza. Dopo otto giorni di volo finisce in una terra vasta come un’isola, splendente e sferica e illuminata da una grande luce: la Luna. Sbarcati sulla superficie lunare, Luciano e i suoi compagni sono catturati dagli Ippogrifi (uomini che cavalcano enormi avvoltoi) e portati al cospetto del re selenita Endimione, che si trova impegnato in una guerra contro il re del Sole Fetonte per la colonizzazione di Vespero, Venere. Questa “guerra stellare”, combattuta da guerrieri improbabili come i Caulomiceti, armati di funghi come scudi e di gambi di asparagi come lance, o come gli Psyllotoxoti, che cavalcano pulci grandi come dodici elefanti, è vinta dall’esercito del Sole. Luciano e i suoi compagni, che avevano combattuto alleati con i Seleniti sono fatti prigionieri e portati sul Sole. La loro prigionia non dura molto, e una volta liberi decidono di tornare sulla Terra nonostante Endimione cerchi di trattenerli con sé promettendogli grandi onori.

Prima di riprendere la narrazione del suo viaggio, Luciano dichiara di riferire «le cose nuove e straordinarie» che ha avuto modo di osservare durante il suo soggiorno sulla Luna, iniziando una minuziosa quanto inverosimile descrizione dell’aspetto e delle abitudini dei Seleniti, come l’assenza di donne e la nascita dei bambini dai polpacci degli uomini.

La nave torna infine sulla Terra, ma viene inghiottita da una gigantesca balena di millecinquecento stadi di lunghezza. Al suo interno Luciano e i suoi compagni trovano un’isola abitata da fantastiche tribù. L’equipaggio le stermina tutte e, dopo un anno e nove mesi dall’apertura della bocca del mostro, i protagonisti assistono a una incredibile battaglia tra giganti che su isole lunghe remano come se queste fossero navi.

Nel secondo Libro Luciano e i suoi brancaleoneschi argonauti cercano una soluzione per riguadagnare il mare aperto. Sperimentano vari stratagemmi per evadere e infine appiccano un risolutivo incendio che, dopo alcuni giorni, quando l’animale è ormai morente, permette loro di far uscire la nave attraverso la bocca aperta del mostro marino. Attraversano quindi un mare di latte, scoprono un’isola di formaggio e le Isole dei Beati, governate dal cretese Radamante, dove incontrano Omero, Ulisse, Socrate, Pitagora e altri famosi personaggi. Quindi salpano e giungono presso un’isola dove vengono trattenuti da personaggi come Ctesia ed Erodoto, eternamente puniti per le “menzogne” da loro narrate. Quindi giungono presso l’isola dei sogni, dove rimangono trenta giorni, per poi approdare Dopo all’isola di Ogigia, dove consegnano a Calipso, da parte di Odisseo, una lettera in cui l’eroe spiega che avrebbe preferito rimanere con lei per poter vivere in eterno. Quindi riprendono la navigazione, giungendo presso una voragine nell’Oceano profonda mille stadi, ma riescono a superarla remando faticosamente su un ponte d’acqua che unisce le due sponde e si ritrovano finalmente in acque tranquille.

Dopo aver avvistato altre isole, scoprono infine un continente (verosimilmente l’America!). Mentre discutono se sbarcare per poco tempo o inoltrarsi nell’entroterra per esplorare questo nuovo mondo, una burrasca sbatte la nave sul lido distruggendola e condannando i malcapitati a restare lì. Il romanzo a questo punto si conclude improvvisamente, con la promessa di raccontare le successive avventure dei nostri eroi in libri seguenti, che Luciano non sembra però aver mai scritto.

Le Edizioni aurora Boreale ripropongono oggi ai lettori la Storia Vera nella traduzione dal Greco di Luigi Settembrini (1862), lasciando inalterate sia le note che denominazioni latine (in luogo di quelle elleniche del testo originale) dei personaggi da questi adottate.