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EGITTO E MISTERI ELEUSINI: L’equivoco della presunta origine dell’Eleusinità dall’Egitto e l’ellenizzazione dei Riti di Iside e Osiride di Nicola Bizzi

EGITTO E MISTERI ELEUSINI:

L’equivoco della presunta origine dell’Eleusinità dall’Egitto

e l’ellenizzazione dei Riti di Iside e Osiride

 

di Nicola Bizzi

(estratto dal volume Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta. Edizioni Aurora Boreale, Firenze 2017)

 

La questione dell’origine dell’Eleusinità e dei suoi Misteri è stata oggetto in passato, in ambito storico e storico-religioso, di intensi dibattiti, di diatribe e di discussioni che hanno spesso spaccato il mondo accademico, protraendosi, nonostante le evidenze archeologiche emerse dagli scavi del XIX° e del XX° secolo, in parte ancora oggi. E la ragione sostanziale per cui non vi è stata ancora fra gli storici una piena identità di vedute a riguardo può essere in buona parte ricercata nella non obiettiva e fallace interpretazione di numerose fonti antiche, fonti che, come vedremo, erano fortemente condizionate da un pregiudizio fondato sul falso mito della presunta superiorità dell’Egitto e delle sue tradizioni religiose e sapientali sul mondo ellenico.

Una visione, questa, che infatti ritroviamo in molti autori Greci, che tendevano a mitizzare la cultura egizia, indicandola erroneamente come la madre di ogni sapienza e di ogni prototipo religioso.

In varie parti di questo saggio viene sottolineato e spiegato che la comune associazione della Dea Demetra al grano, alle messi e alla fertilità della terra sia frutto di una visione popolare e profana dello hieros-logos eleusino e che in realtà, dal punto di vista iniziatico, coloro che ricevevano in Eleusi il sale della vita, accedendo ai Sacri Misteri, sono sempre stati ben consapevoli dell’infondatezza di alcun preteso nesso o legame fra la Dea e il biondo frutto della terra, e del fatto che la presenza della spiga in varî passaggi della ritualità e il conferimento, da parte di Demetra, a Trittolemo del compito di “seminatore” erano finalizzati alla comprensione di concetti assai più profondi, quali la natura dell’anima umana e la sopravvivenza di essa alla morte attraverso il ciclo delle rinascite (la spiga di grano rappresenta infatti, esotericamente, il ciclo della vita: concepimento, nascita, crescita, morte e nuova vita. E L’iniziato, come la spiga mietuta, offre dunque se stesso e i suoi semi, cioè la ricchezza della sua esperienza personale, che nel tempo ha “maturato” e può ancora “perfezionare”). Eppure, nonostante la palese evidenza che la conoscenza dei cereali e la loro coltivazione fossero una realtà consolidata, in Attica come in numerose altre parti del mondo antico, già millenni prima dell’incarnazione della Dea, del suo arrivo ad Eleusi e della sua Rivelazione, attorno al mito della presunta associazione fra Demetra e la nascita dell’agricoltura e fra la Dea e la diffusione del frumento e di altri analoghi cereali, sono fioriti i miti e le leggende più disparati, molti dei quali avevano fini prettamente “politici”. Miti e leggende che non hanno fatto altro che alimentare la presunta correlazione fra Demetra e il grano, influenzando per secoli la poetica e la letteratura. Basti ricordare a riguardo i celebri versi citati da Plutarco nei Moralia: «Che mai serve ai mortali oltre queste due cose: la spiga di Demetra e un sorso d’acqua pura?».

La lettura della Bibliotheca Historica di Diodoro Siculo ci offre numerosi esempi di una certa strumentalizzazione “politica” delle interpretazioni profane dello hieros-logos eleusino in relazione al collegamento Demetra-frumento e di come varie polis della Grecia, e persino varie nazioni non greche dell’area mediterranea, fossero solite contendersi il primato della “scoperta” del grano, dichiarando e pretendendo che il loro territorio fosse stato “visitato” dalla Dea prima degli altri. I Sicelioti, ad esempio, in quanto abitavano un’isola per varie ragioni sacra a Demetra e a Kore-Persefone, ritenevano verosimile che la Dea avesse elargito a loro per primi il biondo frutto della terra. Scriveva infatti a riguardo Diodoro che per i Sicelioti «sarebbe infatti strano che la Dea da un lato considerasse propria questa terra fertilissima e dall’altro la rendesse partecipe del beneficio per ultima, come se le fosse indifferente, avendo per di più Ella avuto dimora proprio qui»[1].

Come sottolinea l’archeologa Anna Maria Corradini, il fatto che Diodoro affermi che la Sicilia sia stata la prima in assoluto a conoscere il grano e che solo dopo Demetra, vagando alla ricerca della Figlia, lo abbia donato agli Ateniesi, deve far riflettere: se esistono fattori campanilistici per cui Diodoro, nativo di Argira, è propenso ad attribuire alla Sicilia il primato della scoperta del grano, tuttavia l’antichità del culto sembra un fatto acclamato[2]. E questo è vero, perché, a prescindere dai “campanilismi” e dalle assurde illazioni in merito ad un presunto primato della coltivazione del grano, il culto delle Due Dee, Demetra e Kore-Persefone, è attestato in Sicilia sin dalle epoche più remote della “Coscienza Proto-Eleusina”, quando l’isola rientrava a pieno titolo sotto l’influenza politica, culturale e religiosa della Creta minoica.

Ma la versione del mito, fra quelle riportate da Diodoro, che più appare elaborata per fini prettamente politici risulta essere quella diffusa dagli Egiziani. Scrive infatti Diodoro: «Gli Egiziani affermano che Demetra e Iside sono la stessa Divinità e che la Dea portò il seme in Egitto prima che altrove, poiché il fiume Nilo irriga le pianure al momento opportuno e la loro terra gode di un eccellente clima temperato»[3].

Molti storici hanno sostenuto che da queste parole di Diodoro si comprenderebbe come per gli Egiziani l’identificazione di Iside con Demetra e la loro assimilazione in un’unica Divinità, nonché il vantare un presunto primato nella coltivazione cerealicola connesso a tale identificazione, potesse assumere una sorta di valore “politico”, funzionale con certe presunte mire espansionistiche, oltre che commerciali, che di tanto in tanto potevano emergere in seno alla corte faraonica nei confronti dell’Attica e di altri territori greci. Ma personalmente ritengo del tutto improbabili e irrilevanti eventuali mire espansionistiche dell’Egitto faraonico nei confronti della Grecia. Durante l’Antico Regno (2700-2192 a.C.), il Primo Periodo Intermedio (2192-2055 a.C.) e il Medio Regno (2055-1650 a.C.) sia l’area dell’attuale Grecia continentale che le numerose isole dell’Egeo erano sotto il diretto controllo della Creta Minoica, con la quale l’Egitto aveva un canale preferenziale nel commercio e solidi rapporti di alleanza. Il Secondo Periodo Intermedio (1650-1550 a.C.) di fatto coincise con l’invasione degli Hyksos e con il loro dominio sull’area del Basso Egitto e del delta del Nilo. Soltanto durante il Nuovo Regno (1550-1069 a.C.) e il Terzo Periodo Intermedio (1069-664 a.C.), fasi successive al tracollo della civiltà minoica e della propria talassocrazia e coincidenti con la cosiddetta Età Micenea e con il Medio Evo Ellenico, tali mire sarebbero state ipoteticamente possibili e plausibili, ma non ebbero di fatto alcuna conseguenza che andasse oltre gli scambi commerciali e la creazione di limitati ed esigui insediamenti costieri. Quindi dobbiamo dedurne che l’interpretazione egizia del mito di Demetra, l’associazione-identificazione di quest’ultima con Iside e il suo collegamento con un ipotetico primato nella coltivazione cerealicola siano relativamente tardive e dettate da un sentimento nazionalistico fondato anche sulla presunzione di una superiorità sia religiosa che culturale dell’Egitto. Un sentimento che, del resto, nella terra del Nilo era assai diffuso nei confronti degli altri popoli, mediterranei e non. Ma vediamo, prima di esprimere ulteriori commenti e considerazioni, con le stesse parole di Diodoro, quale fu questa “interpretazione” egizia:

«(…) Eretteo, che era originario dell’Egitto, divenne Re degli Ateniesi. Queste le prove: durante la siccità generale che, per ammissione comune, colpì quasi tutta la terra abitata, ad eccezione dell’Egitto per il carattere peculiare di tale regione, e che provocò la distruzione dei raccolti e la morte di un gran numero di uomini, Eretteo fece portare dall’Egitto, per le affinità di sangue che lo legavano a quella terra, una grande quantità di grano. In cambio, il popolo beneficato elesse Re il suo benefattore. Questi, assicuratosi il potere, insegnò le cerimonie iniziatiche di Demetra a Eleusi e fondò i culti misterici, trasferendone il rituale dall’Egitto. Né risulta contraria a ragione la tradizione che colloca l’avvento della Dea in attica in questo periodo, come se fosse allora che i frutti legati al nome di Demetra fossero stati introdotti in Atene, e pertanto si pensò che nuovamente fosse avvenuta la scoperta dei semi e che questi fossero doni della Dea. Anche la tradizione ateniese ammette, dal canto suo, che durante il regno di Eretteo, dopo che l’assenza di piogge aveva cancellato i raccolti, Demetra fece la sua comparsa in Attica col dono del grano. Inoltre, i riti iniziatici e i Misteri di questa Dea proprio allora sono stati istituiti a Eleusi. Anche per quanto riguarda i sacrifici e le cerimonie più antiche, il comportamento degli Ateniesi è simile a quello degli Egiziani: infatti gli Eumolpidi derivano dai sacerdoti egiziani e i Kerykes dai pastofori. Si aggiunge che gli Ateniesi sono i soli tra i Greci a giurare nel nome di Iside e che per aspetto e costumi sono davvero vicini al popolo egiziano.

Con questi e con altri analoghi discorsi, dettati a mio parere più dall’ambizione che dall’amore di verità, gli Egiziani rivendicano Atene come loro colonia per via dell’importanza e della gloria della città»[4].

Sinceramente, una simile sequela di sciocchezze prive di alcun fondamento non meriterebbe alcun commento e alcuna considerazione. È stato però necessario riportarla in questa sede ai fini della chiarezza, poiché tale “interpretazione” egizia ha storicamente fatto più danno della grandine, influenzando dapprima diversi antichi autori e, in epoca più recente, una schiera di storici delle religioni che hanno preteso di ravvisarvi un qualche fondo di verità. Ma questa “favoletta” egizia, probabilmente diffusasi, con fini di rivalsa “nazionalista”, fra la fine del decadente Terzo Periodo Intermedio e l’inizio della dominazione persiana sulla terra del Nilo, e dalla quale lo stesso Diodoro prende ampiamente le distanze, si smonta da sé con poche semplici considerazioni. Innanzitutto perché Eretteo, sesto mitico Re di Atene che la tradizione vuole figlio (o, in altri casi, nipote) di Erittonio (altro mitico Sovrano ateniese che Pausania ci dice figlio di Efesto e di Gea[5] e che Apollodoro indica come figlio di Efesto e di Atena[6]), non può in alcun modo essere collegato con l’Egitto, né gli si possono attribuire origini egiziane. In secondo luogo egli ci viene descritto concordemente da tutte le fonti come acerrimo nemico di Eleusi, contro la quale ingaggiò una lunga guerra; nemico sia da un punto di vista politico che, soprattutto, da un punto di vista religioso. Non avrebbe quindi potuto in alcun modo rendersi artefice dell’istituzione, in una città a lui nemica, di un culto misterico che già peraltro esisteva e al quale era nettamente ostile.

Per non parlare della ridicola presunzione di far derivare dai Sacerdoti egiziani le due principali Tribù sacerdotali di Eleusi, gli Eumolpidi e i Kerykes!

Eppure, certe “mitologie” nazionalistiche egizie, accompagnate dalla pretesa di vedere nelle Divinità elleniche una presunta origine dalla terra bagnata dal Nilo e di vedere, di conseguenza, l’Egitto come depositario di ogni originaria ed antica sapienza, influenzarono non poco la mentalità ellenica. Una tendenza, questa, che si accentuò ulteriormente e notevolmente in età ellenistica, con la conquista del regno faraonico da parte di Alessandro Magno e con il conseguente incontro diretto e prolungato fra la cultura egizia e quella greca; incontro che permise al mito osiriano quale si svilupperà in questa nuova fase storica sotto il patrocinio di una figura di Iside marcatamente “ellenizzante”, cuius nomen Aegyptiis placet, di sublimare all’alto valore di pegno mistico dell’immortalità beata i vecchi riti funerari propri della terra d’Egitto. Ma anche un incontro che dette inevitabilmente vita a inedite forme di sincretismo religioso che culminarono nella creazione, squisitamente tolemaica, del culto di Divinità “costruite” come Serapide (Σέραπις), una nuova Divinità “creata” su misura, nelle intenzioni di Tolomeo I°, per il variegato e cosmopolita ambiente religioso-culturale alessandrino, che sarebbe dovuto divenire (e che in buona misura divenì) il perfetto connubio delle due tradizioni. Serapide si presentava, in tutte le raffigurazioni scultoree, con lineamenti marcatamente ellenici e con folta barba, richiamando così le tradizionali raffigurazioni di Zeus, con un kalathos sul capo (richiamando così aspetti propri della Tradizione Misterica che esamineremo in altri capitoli), ma riuniva in sé, snaturandole e stravolgendole, le figure di Osiride (Ausar nella forma originale egizia e Ὄσιρις nella sua forma ellenizzata) e quella del Dio Api (Hep nella forma originale egizia), un’antichissima Divinità il cui culto è attestato da Manetone già al tempo della IIª Dinastia e che a Menfi era venerata sotto la forma di un toro.

Si ebbe inoltre in quel periodo una forzata “ellenizzazione” di alcune delle tradizionali Divinità del complesso pantheon egizio, i cui nomi ci sono infatti pervenuti, nelle fonti letterarie greche e latine, nella loro forma ellenizzata, e una forzata, a tratti talvolta anche ridicola e paradossale, assimilazione di esse con alcune Divinità greche. L’oscena figura di Dioniso venne così assimilata, nella mentalità popolare greca, in maniera del tutto impropria, con quella di Osiride, che già abbiamo visto “aggregata” nella figura alessandrina di Serapide, Amon, “il misterioso”, “il nascosto” (nella forma originale egizia Imn), Divinità antichissima e della massima importanza, venne identificato con l’inflazionato e onnipresente Zeus, e Anubis (nella forma originale egizia Inpw), per via del suo ruolo di Divinità che presiede al mondo dei defunti, venne assimilato con il greco Hades (ᾍδης).

Altra aberrazione alessandrina fu il tentativo di riunire sincretisticamente le figure di Hermes e di Anubis, con l’artificiosa creazione di una nuova Divinità, Hermanubis, che non trovò però molto consenso fra le classi popolari dell’Egitto tolemaico. Si crearono anche forzate identificazioni e assimilazioni fra la Dea Hathor (Ḥwt-ḥr nella versione originale egizia) e Afrodite, fra il Dio Min (Mnw nella versione originale egizia), Divinità itifallica di origini antichissime e già venerata in epoca predinastica, e il greco Pan, fra la Dea Madre egizia Mut (Mwt nella forma originale), la “Signora del Cielo” associata alle acque da cui tutto aveva avuto origine per partenogenesi, e la scialba paredra di Zeus Hera, fra la Dea Neith (Nt nella forma originale), la patrona della città di Sais nel delta occidentale del Nilo, associata alla guerra e alla caccia e considerata artefice delle armi dei guerrieri e guardiana dei morti in battaglia, e Atena (e talvolta Artemide). Inoltre, Onuris (Inhert nella forma originale), Divinità anch’Essa associata alla caccia e alla guerra, il cui culto si sviluppò già in epoca remota nei deserti del Basso Egitto, conosciuto come colui che aveva raccolto l’occhio di Ra, di cui era il messaggero, venne immancabilmente assimilato al greco Ares, mentre Ra, antica Divinità solare del pantheon eliopolitano (forse l’u-nica il cui nome non venne ellenizzato), successivamente associata al Dio tebano Amon (dando così origine alla figura di Amon-Ra, la più importante Divinità del pantheon egizio a partire dalla XIIª Dinastia), venne assimilato con Helios. Si ebbero infine quantomeno curiose assimilazioni fra Nekhbet (Nḫbt nella forma originale), Dea dell’Alto Egitto di origini predinastiche raffigurata con le sembianze di un avvoltoio, e la Dea Titana Eileithyia (Εἰλείθυια), associata alla vita e ai parti, fra Hershef (Ḥry-š-f nella sua forma originale e Harsaphes nella sua forma ellenizzata), altra Divinità dell’Alto Egitto, una sorta di demiurgo che nacque dalle acque primordiali affiorando sul fiore di loto, il cui nome significa letteralmente “Colui che è sul suo stagno”, ma che veniva anche definita “Colui che ha grande forza”, e la figura di Eracle, e fra Nefertum (Nfr-tm nella forma originale), antico Dio della regione di Menfi, il cui nome significa “perfetto, senza uguali”, e il Dio Titano Prometeo. Ma l’assimilazione sincretica più nota di quel tempo fu senza dubbio quella fra Iside (Aset nella sua forma originale e Isis nella sua forma ellenizzata), Divinità di origine celeste, quindi stellare, associata alla maternità e alla fertilità, figlia di Nut e Geb, sorella-sposa di Osiride e madre di Horus, con la Dea Titana Demetra, l’istitutrice dei Sacri Misteri e la figura centrale della ritualità Eleusina.

 

Confronto fra una statuetta egizia raffigurante Iside che allatta Horus e un dipinto cristiano raffigurante la Madonna con Gesù Bambino

 

Obiettivamente possono essere ravvisati non pochi punti di contatto e similitudini fra le figure di Iside e di Demetra, ma da qui ad affermare, come hanno fatto taluni storici delle religioni, che la seconda possa derivare dalla prima o che siano identificabili come la stessa Divinità, ce ne corre. Una simile affermazione, come vedremo, oltre ad essere priva di oggettivo fondamento (poiché le due Dee mantennero sempre le proprie ben riconoscibili caratteristiche e singolarità), si inserisce di buon grado in quel fallace orientamento culturale che, sulla scia delle tendenze sincretistiche della tarda antichità e della riscoperta tardo-medioevale e rinascimentale della Tradizione Ermetica (che niente ebbe mai a che spartire con l’Eleusinità Madre), si riallaccia a quel deleterio atteggiamento relativistico, purtroppo fatto proprio anche da varî ordini iniziatici e in primis dalla Massoneria, che è sfociato nella delirante idea di una presunta unità trascendente delle religioni nel segno di un’altrettanto presunta unica Tradizione primordiale. Un’idea, quest’ultima, che gli Eleusini hanno sempre aborrito e fortemente confutato e che prenderemo meglio in esame nel capitolo Misteri e Filosofia.

Prima di prendere in esame nel dettaglio le cause e le ragioni dell’assimilazione sincretica fra le figure di Iside e di Demetra, focalizziamoci sul particolare contesto storico che fece sì che una dottrina religiosa che mai, nei secoli, era uscita dai sacri confini della terra dei Faraoni, ad “ellenizzarsi” e a diffondersi in tutto il bacino mediterraneo e anche oltre. E per fare ciò dobbiamo risalire all’anno 525 a.C., quando l’Egitto, ad opera dell’Achemenide Cambise II° (in Greco Καμβύσης, in Persiano antico Kambūjia), figlio di Ciro il Grande, dopo la sconfitta del Faraone Psammetico III° con cui si chiuse la XXVI° Dinastia, venne a perdere la propria indipendenza, finendo sotto il giogo dei Persiani, che lo ridussero ad una semplice provincia del loro Impero. Cambise, come del resto i suoi successori, ostentò un assoluto disprezzo sia per la cultura che per le tradizioni religiose del paese conquistato, disprezzo che toccò toni sacrileghi e dissacratorî, come nel caso in cui il Re dei Re si spinse a uccidere di propria mano il Sacro Bue Apis.

Dopo circa due secoli di oppressione persiana, l’Egitto passò, nel 332 a.C., sotto il dominio di Alessandro Magno. Il Macedone, al contrario dei Persiani, si dimostrò sin da subito artefice e promotore di una politica straordinariamente tollerante e rispettosa per le tradizioni delle terre a lui soggette. Tanto che il conquistatore si spinse addirittura a recarsi a Menfi per sacrificare al Sacro Bue Apis nel Tempio di Ptah.

Con la morte di Alessandro, avvenuta a Babilonia nel 323 a.C., e con la spartizione non certo incruenta dell’immenso e variegato territorio da egli conquistato fra i suoi diadochi, l’Egitto passò – come già abbiamo visto – ad uno di essi, Tolomeo Lagide, che nel 305 a.C. si autoproclamò Sovrano della terra bagnata dal Nilo, estendendo il suo controllo fino alla Cirenaica.

Nato nell’Eordia, regione centro-occidentale della Macedonia, nel 366 a.C., e figlio di Lago, un fedele ufficiale di Filippo II° (circolava a quel tempo la voce che fosse in realtà un figlio illegittimo del Sovrano e di una sua concubina, Arsinoe, che Filippo avrebbe dato in sposa a Lago quando questa era già incinta), Tolomeo fece una brillante carriera militare, prima al fianco di Filippo e poi con Alessandro, seguendolo nelle sue campagne di conquista. Si iniziò già in giovane età ai Misteri di Samotracia e ai Misteri Eleusini e la sua sensibilità religiosa trovò piena e proficua applicazione non appena, incoronatosi novello Faraone e fregiatosi dell’appellativo di Sotere (Salvatore), iniziò a regnare sull’Egitto, dando inizio a una dinastia destinata a restare saldamente al comando del paese finché questo, con la sconfitta e la morte di Cleopatra VIIª, cadde nel 30 a.C. sotto il dominio di Roma.

Tolomeo adottò fin da subito una lungimirante e saggia linea politica tesa ad accattivarsi le simpatie e il consenso dei suoi sudditi, non solo rispettando e valorizzando le loro antiche tradizioni, ma dando anche vita a un progressivo processo di amalgamazione del patrimonio culturale-religioso e sapientale egizio con quello sopravvenuto greco-macedone; processo che ebbe come punto di partenza proprio quella grandiosa città che Alessandro aveva fondato non molti anni prima in una posizione strategica della costa mediterranea, sul luogo dove sorgeva l’antico villaggio di Rhacotis, non distante dal delta del Nilo: Alessandria. E, nell’ambito di questo processo, si presentò a Tolomeo la necessità, anche politica, di plasmare una comune idea religiosa di fondo che fosse ugualmente accettata ed accettabile sia dall’elemento indigeno che dai dominatori Greco-Macedoni, innanzitutto perché da parte di questi ultimi vi era la necessità di guadagnarsi la benevolenza degli Egiziani, i quali, profondamente attaccati alle loro credenze, non avrebbero in alcun modo tollerato l’imposizione di Divinità straniere, ma anche e soprattutto perché i Greci stessi non esitavano a riconoscere il valore e l’elevatezza della religione e della sapienza dell’Egitto.

Agli occhi di Tolomeo, la linea religiosa da adottare affinché divenisse simbolo e consacrazione di un’unione tra Greco-Macedoni ed Egiziani non poteva essere di colorito troppo “locale”, si fosse pure trattato di inserire in un nuovo Pantheon Divinità quali Amon di Tebe o Rha di Heliopolis. Inoltre, la scelta o l’eventuale predilezione di una Divinità solare avrebbe troppo richiamato alla memoria del clero locale la folle, blasfema ed eretica politica amarniana di Akhenaton. Occorreva invece focalizzare l’attenzione sul culto di Divinità “popolari”, che in tutti i distretti dell’Egitto incontrassero rispetto e venerazione, e queste Divinità non potevano che essere Osiride e Iside, le uniche in cui si compendiavano di fatto tutta la religiosità e la spiritualità egiziane.

A contribuire ad una certa assimilazione nella mentalità popolare, prevalentemente a livello profano e indubbiamente in contesti ben distinti e distanti dall’ambito iniziatico Eleusino, fra le figure di Iside e Demetra, è stato senz’altro il fatto che durante l’epoca tolemaica, parallelamente all’introduzione del culto di Serapide di cui abbiamo detto, la figura della sorella-sposa di Osiride abbia ricevuto, proprio sulla spinta di questa rivoluzione religiosa di Tolomeo, un’enorme enfatizzazione che ne ha fatto la Divinità in assoluto più popolare e più venerata dell’Egitto.

Risulta molto significativo il fatto che, come ci confermano varie fonti, fra cui principalmente Tacito[7], il principale consigliere di Tolomeo (e sicuramente il vero regista) in questa grande operazione di rinnovamento religioso sia stato il Pritan degli Hierofanti di Eleusi, l’Eumolpide Timoteo. In lui Tolomeo, che come già ho detto si era iniziato ai Misteri Eleusi, riponeva sicuramente la massima fiducia. E sarà lo stesso Timoteo, massima guida spirituale dell’Eleusinità di quel tempo, pochi anni dopo, su richiesta dello stesso Tolomeo, a istituire anche ad Alessandria d’Egitto i Sacri Misteri, con l’apertura di un Santuario direttamente dipendente da quello Madre di Eleusi e presiedendo solennemente di persona ai Riti e alle Cerimonie. Dovrebbero quindi sciacquarsi la bocca quegli storici che ancora sostengono che vi fosse, nella mentalità ellenica del tempo, una qualche forma di sudditanza nei confronti della religiosità egiziana, quando in realtà era da Eleusi che si stavano decidendo e definendo le sorti di quest’ultima.

È a mio parere da escludere, nelle intenzioni del Pritan Timoteo, la volontà di dare vita ad una mera politica sincretistica fra le Divinità delle due diverse tradizioni. Gli Eleusini, infatti, discostandosi in questo dalla menta-lità “greca” comune e popolare, hanno sempre aborrito i facili sincretismi e le forzature nell’assimilazione delle Divinità fra diverse culture e tradizioni. È molto più probabile, infatti, che Timoteo, e con lui i vertici del clero eleusino dell’epoca, ravvisasse in questo suo coinvolgimento da parte di Tolomeo soprattutto l’opportunità di estendere all’Egitto il messaggio soterico e di redenzione delle Due Dee, la Madre e la Figlia, e prova ne è il fatto che, a prescindere da un’evidente ellenizzazione e, se vogliamo, “eleusinizzazione” del mito, del culto e della ritualità di Iside e Osiride determinata dalla riforma religiosa tolemaica[8], la celebrazione dei Sacri Misteri Eleusini introdotta ad Alessandria, e le connesse pratiche di iniziazione e i percorsi eruditivi delle Scuole del nuovo Santuario, si mantennero sempre ben distinti, separati e riconoscibili dalle pratiche e dagli uffici del culto misterico di Iside e Osiride. Così, mentre in questo Egitto avviatosi ormai ad una progressiva ellenizzazione si diffondevano sempre più (non solo fra i grecofoni, ma anche presso vari strati della società egiziana) e venivano ufficialmente istituzionalizzati ad Alessandria i Misteri Eleusini, da quella stessa terra, parallelamente, si diffondeva con rapidità in tutto il mondo greco e nei dominî di Roma un culto misterico incentrato sulle figure di Iside e Osiride; un culto misterico sviluppatosi sul modello di quelli ellenici e vicino-orientali, in cui la figura di Iside appariva assai distante da quella delineata oltre 2.500 anni prima nei testi delle piramidi di Saqqara, al tempo della Vª e VIª Dinastia, e molto più vicina ai canoni ellenici.

Sposa fedele, madre sollecita, una Dea la cui fecondità non appariva selvaggiamente esuberante come nel caso, ad esempio, della Grande Madre anatolica Cibele, bensì disciplinata dai doveri e dalle contingenze della realtà sociale egiziana, in questa fase Iside apparve sempre più agli occhi dei suoi fedeli anche come meticolosa legislatrice e benefattrice del suo popolo e della sua terra, elementi questi che hanno ulteriormente portato tanto i moderni interpreti profani del suo culto e dei suoi miti quanto molti scrittori di età ellenistica e romana imperiale ad associarla alla dolce e materna, ma al tempo stesso rigorosa e determinata Demetra, istitutrice dei Misteri Eleusini; Demetra la Madre di Kore, Demetra “la Cercatrice”, che, come abbiamo visto, era impropriamente a livello popolare e profano associata alla natura, alla fertilità e all’agricoltura, ma anche la Demetra tesmofora, la legislatrice, la dispensatrice dei più corretti ordinamenti per il genere umano.

Questo sincretismo Iside-Demetra è stato esemplarmente rappresentato nel II° secolo da Lucio Apuleio nelle Metamorfosi, opera conosciuta anche con il titolo L’Asino d’Oro (Asinus Aureus), un vero e proprio testo iniziatico oltre ad essere l’unico romanzo antico in Latino pervenutoci integralmente.

 

Dettaglio del Papiro Greenfield (X° secolo a.C.), contenente il Libro dei Morti di Nesitanebisheru, figlia del sommo Sacerdote di Amon a Tebe, raffigurante i genitori di Iside e Osiride, la Dea Nut (il cielo) e il Dio Geb (la terra), separati da Shu, Dio dell’aria e del soffio vitale, su ordine di Atum, il Dio creatore
(Londra, British Museum)

Per mezzo di simbolismi e allegorie ben dosati in una narrazione non certo priva di trasporto, l’autore ci illustra l’esperienza iniziatica isiaca, attraverso la vicenda del protagonista, tale Lucio di Corinto, trasformato in un asino dall’incantesimo di una maga della Tessaglia e poi risorto a condizione umana grazie al provvidenziale intervento salvifico della Dea, una simbolica morte e rinascita, attraverso l’Iniziazione e il contatto divino. Le parole con le quali Apuleio descrive il Rito dell’Iniziazione risultano però volutamente sibilline. L’autore dimostra in questo modo la sua appartenenza ad un contesto iniziatico isiaco, ma non si spinge troppo oltre nella narrazione, in evidente segno di rispetto del voto di silenzio prestato: «Io ho raggiunto il confine della morte e, oltrepassato il limitare di Proserpina, ho navigato attraverso tutti gli elementi. Nel cuore della notte ho visto il Sole rifulgere di candida luce e mi sono appressato agli Dei Superi ed Inferi, adorandoli da vicino»[9].

Apuleio, cives romano di famiglia berbera nato a Madaura, nell’attuale Algeria, attorno al 125 d.C., definito dallo storico delle religioni Nicola Turchi «una delle figure più enigmatiche della letteratura latina»[10], fu effettivamente un personaggio complesso e controverso e sotto molti aspetti ancora oscuro ed insondato: retore, filosofo, medico, mago, sacerdote, fu soprattutto un grande Iniziato, tanto che di lui si diceva che fosse iniziato a tutti i Misteri. Ma fra gli scrittori di quel tempo, dobbiamo principalmente a Plutarco di Cheronea, nato una settantina d’anni prima di Apuleio, se l’assimilazione Iside-Demetra toccò forse il suo apice. Plutarco, prolifico autore e al contempo anch’egli grande Iniziato, dopo aver ricevuto il sale della vita a Eleusi, si iniziò anche ai Misteri di Iside e Osiride, scalandone i più alti gradi. E a questo culto misterico, che tanto aveva ripreso, se vogliamo anche in maniera illegittima ed impropria, dal bagaglio culturale, esoterico e iniziatico dei Misteri Eleusini, egli rimase sempre intimamente legato, trasportandone in numerose sue opere i fondamenti spirituali e gli insegnamenti (ovviamente nei limiti di quanto poteva essere comunicato o trasmesso a un lettore potenzialmente anche profano).

È nel sua trattato De Iside et Osiride (Περὶ Ἴσιδος καὶ Ὀσίριδος) che Plutarco si addentra (sempre nei limiti del consentito) in profonde disquisizioni teologiche riguardo alla Dea e al suo divino fratello-sposo Osiride. Particolarmente emblematica, suggestiva e significativa è l’epigrafe, menzionata da Plutarco, che si trovava su una statua di Iside a Sais, nel Basso Egitto: «Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio velo»[11].

Degli ottanta capitoli di cui l’opera plutarchea si compone, otto sono interamente dedicati ad una ricerca interpretativa del mito di Iside e Osiride, mito però fortemente rivisitato da Plutarco, come risulterà evidente ai lettori più attenti nella sintesi che più avanti riporterò, in chiave decisamente ellenica. Plutarco visitò l’Egitto, come prima di lui avevano fatto molti illustri Filosofi ed Iniziati ellenici come Solone, Platone, Talete, Eudosso, Pitagora ed Erodoto, e lo fece anch’egli con l’animo del Filosofo e dell’Iniziato, del Sacerdote e del Teologo, tutte qualifiche che del resto gli competevano, ma non riuscì a liberarsi dalla maledetta trappola del sincretismo, da quell’ansia, prettamente greca, di voler a tutti i costi assimilare gli Dei dell’Ellade a quelli dell’Egitto. Egli, interpretando il mito attraverso i propri parametri culturali, intendendo idealmente far bagnare le pendici dell’Olimpo dalle sacre acque del Nilo, lo snatura, lo deforma, lo priva della sua anima e della sua più originaria essenza, lo piega alle sue proprie convinzioni, al proprio retaggio e al proprio bagaglio culturale. E quella che emerge dalla sua narrazione non è più (o meglio, non è più soltanto) la Iside della Grande Enneade, figlia Di Nut e Geb e sorella di Nephthys, Seth e Osiride, mirabilmente descritta dagli antichi Testi delle Piramidi: è di fatto una Dea con nuove vesti, un’incarnazione della massima espressione del misticismo egizio rivestita da abiti ellenici e parlante Greco, pensata ad uso e consumo di quello spiritualismo scaturito dal melting pot alessandrino, in un Egitto ormai non solo più ellenizzato, ma anche romanizzato. La Iside descrittaci e narrataci da Plutarco, come vedremo, è di fatto la protagonista di quel culto misterico praticato dallo stesso scrittore, Filosofo ed Iniziato di Cheronea, che, sorto e generato nell’Alessandria tolemaica sul modello dei Misteri Eleusini, arriverà a diffondersi in tutte le province dell’Impero di Roma; una Dea adesso molto più vicina e somigliante a Demetra che al prototipo di Divinità femminile dell’Egitto faraonico.

È stato scritto alcuni decenni fa da Vincenzo Cilento che «Plutarco, donando il suo spirito ellenico alla interpretazione dell’Egitto, paga il debito che, a suo dire, i padri della Grecia avevan contratto con l’Egitto, attingendo di là i primordi della sua sapienza»[12]. Questa poteva essere – beninteso in tutta buona fede – anche l’intenzione di Plutarco, ma si tratta di un madornale errore di fondo scaturito, come già ho detto, dalla presunta superiorità dell’Egitto e delle sue tradizioni religiose e sapientali sul mondo ellenico. Per quanto sia riscontrabile in molti autori ellenici, soprattutto a partire dal IV° secolo a.C., una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della civiltà egiziana e delle sue tradizioni religiose, c’è assolutamente da ribadire che la civiltà greca, nello specifico la sua componente originaria ed arcaica, di derivazione minoico-lelegica, non deve niente alla terra bagnata dal Nilo in quanto a fondamenti e insegnamenti religiosi.

Non mi si fraintenda. Qui nessuno vuole mettere in dubbio l’antichità e lo splendore della civiltà faraonica e delle sue istituzioni religiose, ma occorre sfatare una volta per tutte il falso mito che vorrebbe, nell’ambito del Mediterraneo, tutte le diverse tradizioni fare capo a quella egizia. Fino almeno al V° secolo a.C., in ambito ellenico, non si riscontra alcuna “sudditanza” psicologica nei confronti di un Egitto che veniva visto, semmai, come utile partner commerciale, ma non certo come fonte di ogni sapienza e saggezza.

 

Egitto: Tetradracma d’argento di Tolomeo I° Sotere

Non si possono negare antichi scambi culturali, oltre che commerciali, fra l’Egitto faraonico e la civiltà minoica e le sue derivazioni cicladico-anatoliche ed elleniche. Del resto è documentato che la civiltà minoica intratteneva relazioni commerciali e politiche con tutte le principali potenze dell’Età del Bronzo ed è attestato che le navi della sua possente flotta veleggiavano non solo in ogni angolo del Mediterraneo, ma si spingevano anche assai più lontano, varcando abitualmente le Colonne d’Ercole e dirigendosi fino in America Settentrionale (è attestata e documentata da recenti scoperte archeologiche la presenza di numerosi pozzi minerari minoico-cretesi nel Michigan già attivi almeno dal 2450 a.C., da cui veniva estratta buona parte del rame utilizzato in Europa). Ma in ambito religioso i Minoici, forti delle proprie tradizioni, non amavano le contaminazioni ed i sincretismi, facendo sì, nel pieno rispetto della religiosità dei popoli con cui intrattenevano relazioni amichevoli, che le rispettive tradizioni e convinzioni restassero sempre sostanzialmente distinte. Del resto, ogni popolo dell’antichità era fiero e geloso delle proprie specifiche tradizioni religiose, dei propri miti e delle proprie Divinità, ed era molto meno avvezzo alla contaminazioni e ai sincretismi di quanto si possa oggi immaginare, e soprattutto di quanto lo fossero certi Greci di età ellenistica e romana imperiale. La religione minoica, improntata sull’antico culto titanico e ampiamente diffusa, oltre che a Creta, in tutta l’area dell’Egeo, sulle coste anatoliche, dalla Caria alla Misia, e nel Peloponneso e nell’intera Grecia continentale fino a tutto il XII° secolo a.C., era inoltre da millenni già strutturata e consolidata. E stiamo parlando di quella religione da cui, all’indomani della Guerra di Troia, sorgerà l’Eleusinità con i suoi Riti e i suoi Misteri.

L’insano atteggiamento di sudditanza psicologica nei confronti dell’Egitto che è ravvisabile in alcuni autori di epoca tardo-antica e la smania sincretistica che caratterizza alcuni loro scritti si svilupparono nel mondo greco soltanto in età ellenistica, toccando il suo apice in avanzata età romana imperiale.

Per meglio far comprendere la natura sincretistica (e a tratti anche caotica) del testo plutarcheo, vale la pena riportarne per intero il dodicesimo capitolo, in cui l’autore si sofferma sulla genealogia di Iside, Osiride, Arueris, Tifone e Nephthys:

«Si racconta che quando Rea si unì a Crono di nascosto, il Sole, che se ne accorse e lanciò contro di lei la maledizione di non poter generare figli né in un alcun mese né in un alcun anno. Ma Hermes, innamoratosi della Dea, si unì anch’egli a Lei e, giocando a dadi con la luna, riuscì a vincerle la settantesima parte di ogni lunazione: riunendo tutte quelle settantesime parti riuscì a mettere insieme cinque giorni, che aggiunse ai trecentosessanta dell’anno. Anche ai nostri giorni gli Egiziani li chiamano questi giorni “aggiunti” e li festeggiano come genetliaco degli Dei.

Nel primo di questi giorni nacque Osiride, e insieme a lui uscì dal ventre della madre una voce che diceva: «Ecco, il signore di tutte le cose viene alla luce». Alcuni, poi, raccontano che una certa Pamila di Tebe, andando ad attingere dell’acqua, udisse una voce provenire dal tempio di Zeus, che le ordinava di proclamare che il grande Re benefattore Osiride era nato. Per questa ragione Crono affidò a lei il compito di allevare Osiride. In seguito venne celebrata in onore di Pamila la festa detta delle Pamilie, simile a quella delle Falloforie.

Il secondo giorno nacque Arueris, che alcuni chiamano Apollo e altri invece Horos il Vecchio.

Il terzo giorno nacque Tifone, ma la sua nascita non avvenne nel momento dovuto e nemmeno per via naturale: con un colpo squarciò il fianco della madre e saltò fuori.

Il quarto giorno nacque Iside, nella stagione delle piogge, e il quinto giorno nacque Neftys, che chiamano sia Fine sia Afrodite, da alcuni anche detta Nike (Vittoria).

Osiride nacque dal Sole, come anche Arueris; Iside da Hermes, Neftys e Tifone da Crono: per questo il terzo dei giorni aggiunti era considerato nefasto, e i Re non si occupavano degli affari pubblici e non curavano la propria persona fino al calar della notte.

Dicono poi che Neftys sposò Tifone e che Iside e Osiride, innamoratisi fra loro, si unissero nell’oscurità del grembo materno ancor prima di nascere, e alcuni sostengono che Arueris fosse il frutto di questa unione, e fu chiamato Horos il vecchio dagli Egiziani, e Apollo dai Greci»[13].

Il testo poi prosegue con Osiride che si assiede sul trono d’Egitto, beneficando il paese, sollevando gli uomini dalla vita incivile, promulgando leggi e insegnando loro l’agricoltura e il rispetto per gli Dei, persuadendoli con la dolcezza della ragione e con le arti della musica e della parola piuttosto che con la forza delle armi. Ha così inizio, secondo il mito, una fase di grande splendore e prosperità per la terra bagnata dal Nilo, una fase idilliaca, una sorta di Età dell’Oro in cui gli esseri umani vivono in armonia con gli Dei, apprendendo da Osiride le regole del vivere civile e di ogni saggezza. Ma il malvagio Tifone (Seth), invidioso, trama nell’ombra contro il fratello. Raccolti settantadue congiurati e ottenuta la collaborazione di una regina dell’Etiopia menzionata come Aso, egli prende di nascosto le misure del corpo del fratello e, servendosi di esse, fa costruire una splendida cassa una splendida cassa. Invita poi tutti gli Dei a un solenne banchetto, al termine del quale i convitati sono pregati di entrare nella cassa, promessa da Tifone a colui che vi sarà perfettamente contenuto. Non appena Osiride, ignaro del tranello, entra nella cassa, il coperchio di questa viene fatto immediatamente chiudere e sigillare col piombo dal fratello, aiutato dai congiurati. La cassa sarà poi gettata nel Nilo, le cui acque la trasporteranno verso il mare. E tutto questo avvenne il giorno 17 del mese di Athyr, mentre il cielo attraversava lo Scorpione, nel ventottesimo anno di regno di Osiride sull’Egitto.

Iside, informata del delitto, si veste a lutto e corre disperatamente alla ricerca del corpo dello sposo. Vaga senza meta per giorni, non sapendo esattamente dove cercare e chiedendo notizie a tutti quelli che incontra sul suo cammino. Saranno dei bambini a rivelarLe che la cassa contenente Osiride, giunta alle foci del Nilo, è stata spinta verso il mare aperto. Viene infine a sapere che, trasportata dalle onde del mare, essa si è fermata a Byblos, in Fenicia, dove un albero è miracolosamente cresciuto tanto da proteggerla e includerla nel proprio tronco. la Dea si mette immediatamente in viaggio verso la terra dei cedri. Giuntavi, viene a sapere che l’albero che serba in sé la cassa con le spoglie del marito non è più al suo posto, e che il suo tronco si trova ora nella casa del Re della città, Malcandro, dove è stato impiegato come sostegno del tetto. Iside si siede allora, piangendo e disperandosi e senza parlare con nessuno, presso una fonte, dove incontra le schiave della Regina Astarte che vi si sono recate per attingere acqua. Dopo essere entrata in confidenza con loro ed avendo intrecciato le loro chiome, le avvolge con un soavissimo profumo che emanava dal suo stesso corpo. La regina, saputo ciò, chiede di conoscere la straniera, accettandola poi presso la reggia come nutrice del principino.

Iside allevava il bambino dandogli da succhiare la punta del dito al posto del seno, e di notte immergeva nelle fiamme la parte mortale del suo corpo, per conferirgli l’immortalità. Si trasforma poi in rondine, volando intorno alla colonna e gemendo. Ma la Regina, che una notte sta osservando la scena, quando vede il bambino in preda alle fiamme si mette a gridare, interrompendo l’azione della Dea e privando così il figlio del dono dell’immortalità. Iside allora si rivela nella sua vera natura e chiede che le venga data la colonna del tetto. Ottenutala, sfronda i rami di erica che l’avvolgono, la aprì e ne estrae la preziosa cassa. Affida poi la colonna al Sovrano, dopo averla cosparsa di unguento profumato e avvolta in una pezza di lino.

 

Statua marmorea di epoca romana imperiale rinvenuta nella Villa Adriana di Tivoli,raffigurante una Dea Iside ormai fortemente romanizzata
(Roma, Musei Capitolini)

Ci riferisce Plutarco che, ancora ai suoi tempi, gli abitanti di Byblos veneravano questo tronco, custodito come reliquia all’interno di un Tempio eretto in onore della Dea.

La narrazione prosegue con Iside che si getta sulla cassa, gridando talmente forte che il bambino che stava allevando, il più giovane dei figli del Re, resta ucciso dalle sue stesse grida della Dea. In seguito, caricata su una nave la cassa, si imbarca per fare ritorno in Egitto, scortata dal figlio maggiore di Malcandro e Astarte.

Giunta in un luogo solitario, Iside toglie i sigilli dalla cassa e, apertala, bacia tra le lacrime il volto dell’amato fratello-sposo, mentre il figlio del Re di Byblos, che incautamente si era avvicinato spinto dalla curiosità, fulminato dallo sguardo della Dea cade a terra morto all’istante.

Avvenuto ciò, la Dea prosegue il suo viaggio verso l’Egitto. Dovendosi recare a Butis, sul delta del Nilo, per rincontrare il figlio Horus, dove la Dea Uadjet[14] lo ha accudito ed allevato durante la sua assenza, Iside depone la cassa con il corpo di Osiride in un luogo nascosto, proponendosi di tornare poi a recuperarla. Ma Seth, mentre andava a caccia di notte, la trovò e, riconosciuto il corpo del fratello, lo fece in quattordici pezzi, che poi disperse. Venuta a sapere l’accaduto, Iside si mette immediatamente alla ricerca dei pezzi e, attraversando le paludi del delta con una zattera di papiro, riesce a recuperarli a dare ad essi degna sepoltura. Ed è questa la ragione, secondo Plutarco, per cui in Egitto veniva attestata la presenza di numerose tombe di Osiride.

L’unica parte del corpo del Dio che Iside non riesce a ritrovare è il membro virile, poiché era stato gettato per primo da Seth nel fiume, dove era stato mangiato dai pesci, ma la Dea riesce comunque a sostituirlo con uno artificiale.

Più avanti, nel testo, troviamo infine Horus, figlio di Iside e Osiride, che, divenuto adulto, con l’aiuto e la necessaria preparazione fornitagli dal padre ritornato dall’oltretomba, sfida il malvagio Seth e lo vince. Come riporta Plutarco, la battaglia durò molti giorni e, al termine di essa, Seth viene consegnato da Horus a Iside in catene. Ma la Dea non solo non lo mette a morte, ma decide addirittura di lasciarlo libero. «Horus – scrive Plutarco – non seppe accettare questa decisione: alzò le mani sulla madre e le strappò dalla testa la corona regale. Allora Hermes pose sul suo capo un elmo a forma di testa di bue. Horos fu accusato di illegittimità da Tifone, ma Hermes sostenne i diritti del giovane e gli Dei sentenziarono in suo favore. Tifone, poi, fu battuto in altre due battaglie. Iside si unì a Osiride anche dopo la sua morte, e partorì un figlio prematuro e rachitico negli arti inferiori, Arpocrate»[15].

Molto interessante risulta essere anche questa interpretazione dal taglio sorprendentemente “evemeristico” che Plutarco ci fornisce riguardo ai fatti narrati:

«Quando Iside ebbe ritrovato Osiride e fatto diventar grande Horus, che si irrobustiva sempre più grazie alle esalazioni, ai vapori e alle nuvole, Tifone fu così sconfitto, ma non certo annientato. Questo perché la Dea, Signora della terra, non volle annullare completamente il principio opposto all’umidità, ma intese unicamente ridurlo e poi lasciarlo di nuovo libero, per mantenere intatta la composizione dell’atmosfera. E infatti il cosmo non può essere perfetto se viene a mancare in esso l’elemento igneo. Anche se non è espressamente ammesso dalla religione egiziana, non si può tuttavia respingere la validità del racconto secondo cui Tifone all’inizio aveva il predominio sul regno di Osiride. L’Egitto, infatti, era un mare: per questo nelle miniere e sulle montagne si trovano ancora delle conchiglie. Tutte le sorgenti, poi, e tutti i pozzi, che sono tanti, hanno ancora acqua amara e salata, come se lì si fosse raccolto un vecchio residuo del mare che c’era prima. Col tempo Horus ebbe la meglio su Tifone, vale a dire che il Nilo, grazie al benefico avvento delle piogge, riuscì a respingere il mare, a mettere allo scoperto la pianura e a riempirla di depositi alluvionali»[16].

Interessante anche rilevare quanto riporta Plutarco nel quarantaduesimo capitolo:

«La morte di Osiride corrisponde, secondo il mito egiziano, al diciassette del mese, quando cioè il plenilunio si compie e risulta perfettamente visibile. Per tale ragione i Pitagorici chiamano “ostacolo” questo giorno, e hanno in odio il diciassette più di ogni altro numero. Esso infatti cade fra il sedici, che è un quadrato, e il diciotto, che è un rettangolo, i soli fra i numeri a formare figure piane che abbiano il perimetro uguale all’area; il diciassette si pone come un ostacolo fra di loro, e li separa uno dall’altro, e spezza la proporzione di uno e un ottavo in intervalli diseguali. Gli anni della vita di Osiride, o forse, a seconda delle interpretazioni, quelli del suo regno, furono ventotto: tale infatti è il numero delle lunazioni e anche quello delle giornate necessarie perché il ciclo lunare si compia. Il tronco che viene tagliato nel rito detto “Sepoltura di Osiride” serve a costruire un’urna funeraria a forma di falce di luna: questo perché la Luna, quando si avvicina al Sole, prende l’aspetto di una falce fino a diventare invisibile. Le quattordici parti in cui Osiride viene smembrato, invece, alludono ai giorni in cui l’astro scompare, dal plenilunio fino al novilunio. Il giorno in cui la Luna ricompare, dopo aver superato finalmente il Sole ed essere sfuggita ai suoi raggi, essi lo chiamano “Bene senza fine”. In effetti Osiride è un benefattore, e tra le varie qualità a cui il suo nome allude, non ultima è quella forza benefica e produttiva che gli viene riconosciuta. L’altro nome del Dio, Onfis, secondo Ermeo va interpretato appunto come “benefattore”»[17].

A prescindere da quanto sin qui osservato e riportato, ai lettori particolarmente attenti ed eruditi e in possesso delle corrette chiavi di lettura, o comunque non digiuni di elementi mitologici e teologici dell’Eleusinità, non saranno certo sfuggiti i numerosi punti di contatto e le similitudini fra il testo di Plutarco e l’Inno Omerico a Demetra. Le rispettive narrazioni iniziano, infatti, con la scomparsa di una figura cara e con la disperata ricerca di questa da parte della Divinità in un viatico di dolore che dura varî giorni. Nel caso di Demetra, come sappiamo, protagonista della scomparsa è la figlia Kore, rapita da Ade per ordine di Zeus, mentre nel caso di Iside lo scomparso è il fratello-sposo Osiride. Entrambe le Dee, sia Demetra che Iside, cercano disperatamente per giorni la persona cara scomparsa, fino a che vengono a conoscenza della verità, e entrambe, assunta forma umana, intraprendono un viaggio per mare, la prima diretta a Eleusi, la seconda a Byblos. E da qui in poi le analogie fra le narrazioni si fanno sempre più marcate: entrambe le Dee, arrivate a destinazione, si siedono affrante e disperate presso una fonte, dove incontrano quattro fanciulle lì giunte per attingere acqua: Demetra le quattro figlie del Re di Eleusi Celeo e della Regina Metanira, Iside le quattro schiave del Re di Byblos Malcandro e della Regina Astarte. In entrambe le narrazioni le Dee vengono invitate dalle quattro ragazze a seguirle al palazzo reale, dove vengono assunte come nutrici del principino. Ed entrambe, svolgendo la mansione loro affidata, operano segretamente per conferire al bambino il dono dell’immortalità, immergendolo durante la notte in un sacro fuoco. Entrambe vengono poi sorprese dalla Regina (Metanira nell’Inno Omerico a Demetra e Astarte nella narrazione plutarchea) durante tale atto, e in entrambe i casi l’operazione viene interrotta dalle grida di terrore delle rispettive madri. Infine, in entrambe le narrazioni, le Dee si manifestano nella loro reale natura e identità, esprimendo la propria volontà: Demetra ordina che le venga edificato un Tempio, Iside chiede che le venga consegnata la cassa contenente il corpo di Osiride, contenuta come abbiamo visto nella colonna lignea che sorregge il tetto del palazzo.

Da qui in poi le narrazioni tornano a divergere e a rientrare nel loro “alveo”, anche se mantengono un altro elemento di fondo del resto comune a tutti i culti di carattere misterico dell’area mediterranea e vicino-orientale: quello della morte e della rinascita. Sia nello hieros-logos Eleusino che in quello isiaco narratoci da Plutarco, infatti, le rispettive figure scomparse fanno ritorno dall’aldilà, ma soltanto in maniera parziale, restando in parte legate e vincolate al regno dei morti.

Ricostruzione dell’Iseo Campense di Roma come si presentava nel 95 d.C. (da una stampa del 1917)

Il testo plutarcheo rappresenta emblematicamente non una derivazione della vicenda di Demetra da quella di Iside, come erroneamente hanno in maniera superficiale ipotizzato molti storici delle religioni, ma l’esatto opposto. Ci troviamo infatti di fronte ad un palese esempio di quella “eleusinizzazione” del mito di Iside e Osiride a cui poc’anzi ho fatto riferimento. “Eleusinizzazione” determinatasi proprio in età ellenistica e frutto delle operazioni di rivoluzione religiosa attuate ad Alessandria da Tolomeo I° (Iniziato ai Misteri Eleusini), con la “regia” ed i consigli del Pritan degli Hierofanti di Eleusi Timoteo. Il De Iside et Osiride, ben lungi dall’essere frutto della fantasia di Plutarco, rispecchia fedelmente un modello di hieros-logos adottato in ambiente alessandrino per il culto misterico isiaco, al quale anche il grande erudito di Cheronea si iniziò. Uno hieros-logos frutto della riforma religiosa tolemaica che risulta assai distante dai miti di Iside e Osiride più antichi, come ad esempio quelli riportati nei Testi delle Piramidi del Tardo Antico Regno e del Primo Periodo Intermedio dell’Egitto (2375 – 2345 a.C.), con l’inserimento – talvolta anche improprio e decisamente fuori contesto – di particolari pescati dallo hieros-logos Eleusino. Particolari, sì, dall’alto valore simbolico ed esoterico se letti nel loro contesto originario, ma il cui inserimento nella vicenda isiaca poteva avere solo ed esclusivamente la funzione di “internazionalizzare” il culto e renderlo così fruibile alle masse greche o grecofone.

L’incontro fra Demetra e le quattro figlie di Celeo e Metanira presso il sacro pozzo Kallichoron ha un preciso significato che va oltre il mero invito a corte che ne deriva, poiché – come meglio vedremo in un altro capitolo del volume[18] – tali fanciulle sono destinate a divenire le mogli di quattro fra i primi discepoli della Dea e fondatori di altrettante Tribù e Coorti Primarie dell’Eleusinità Madre. Anche la volontà, da parte di Demetra, di conferire a Demofoonte, il figlio dei Sovrani di Eleusi, l’immortalità e l’invincibilità mediante l’immersione notturna in un fuoco sacro, ha un preciso scopo. Demetra, secondo gli insegnamenti delle Scuole Misteriche Eleusine, aveva previsto l’imminente Guerra di Troia e, se l’operazione magica di conferimento dell’immortalità e dell’invincibilità al fanciullo non fosse stata bruscamente interrotta dalle grida e dall’intervento della madre e fosse invece andata a buon fine, Demofoonte, una volta adulto, sarebbe stato il prescelto in grado di sconfiggere gli Achei, ribaltando così le sorti del conflitto in favore dei Troiani. Tale operazione, invece, praticata da Iside al figlio dei Sovrani di Byblos, non trova alcun apparente significato. E potremmo continuare a lungo, elencando esempi analogici di particolari che nello hieros-logos Eleusino hanno un senso logico e compiuto, mentre non lo trovano in questa versione ellenizzata del mito isiaco.

Ma ormai, le porte del sincretismo religioso erano state spalancate e questo nuovo (o, se vogliamo, rinnovato) culto misterico si stava diffondendo a macchia d’olio ben oltre i confini dell’Egitto. Del resto, l’adozione della lingua Greca stabilita da Tolomeo e implementata dai suoi successori per le pratiche e le liturgie del culto, per quanto potrebbe apparire come un elemento secondario, si dimostrò un fattore determinante per la sua diffusione in tutto il Mediterraneo, permettendone l’accessibilità a milioni di persone, dalla Grecia all’Anatolia, dall’Algeria alla Siria, da Creta alla Sicilia e all’intera Italia Meridionale; in sostanza ovunque si parlasse o si comprendesse il Greco e i suoi numerosi dialetti.

Il papiro 1380 di Ossirinco, facente parte di una cospicua raccolta di testi e frammenti manoscritti databili tra il I° e il VI° secolo d.C. rinvenuti in un’antica discarica fra la fine del XIX° e gli inizi del XX° secolo in quella che fu la capitale del XIX° distretto dell’Alto Egitto, è emblematico del ruolo straordinario a cui era assurta Iside in ogni angolo del Mediterraneo. Il testo in oggetto, databile al tardo II° secolo e noto come Invocazione a Iside, è sicuramente un brano liturgico del culto misterico della Dea. Merita di essere qui riportato poiché è emblematico del livello di sincretismo religioso raggiunto in quegli anni:

«Io invoco Te, o Iside, che sei chiamata presso il Delta la Dispensatrice di Grazie, a Ermopoli la Bella di Forme e la Santa, a Naucratis la Senza Padre, la Gioiosa, la Salvatrice Onnipotente, la Grande, a Pefrem la Sovrana Iside, la Sovrana Vesta, la Signora di tutta la Terra, a Bubasti l’Elemento Primordiale, nell’Iseo di Sethroito la Salvatrice degli uomini, in Eraclea la Signora del Mare, a Pelusio la Ormeggiatrice, in Arabia la Grande Dea, a Roma la Guerriera, a Gaza la Patrona della Navigazione, presso i Traci e a Delo la Dea dai Molti Nomi, presso gli Indiani Maia, in Fenicia la Dea Sira, nel Ponto la Senza Macchia, nella Persia Anahita.

Guardiana e guida dei mari e Signora delle foci dei fiumi, o Signora Iside, la più grande delle Dee, il tuo primo nome è Sothis!

Tu conduci il Sole dall’Oriente all’Occidente e tutti gli Dei ne gioiscono. Allo spuntare delle stelle tutti gli abitanti della Terra indefessi Ti venerano, e gli animali sacri del Santuario di Osiride si rallegrano al Tuo nome!

Tu mandi la rovina a chi vuoi, ma ai rovinati dai grazia e tutte le cose purifichi. Ogni giorno hai Tu fissato per la gioia. Tu hai disposto i luoghi umidi e secchi di cui l’universo si compone. Tu hai ricondotto felicemente Tuo fratello Osiride pilotando da sola e degnamente seppellendolo. Tu hai stabilito i Tuoi Santuari in tutte le città, per sempre, e a tutti hai dettato le norme ed un ciclo annuale perfetto. Tu hai reso immortale il grande Osiride e a tutta la Terra hai insegnato i Sacri Riti (…)»[19].

Pompei: affresco del Tempio di Iside raffigurante la Dea mentre riceve Io a Canopo (I° secolo d.C.)

La straordinaria diffusione al di fuori della loro terra d’origine di questi rinnovati Misteri di Iside e Osiride, ormai fortemente ellenizzati nei contenuti, nella lingua della liturgia e nei numerosi richiami ai Misteri Eleusini su cui ci siamo poc’anzi soffermati, al di là delle esigenze politiche della dinastia Tolemaica e delle reali intenzioni del Pritan degli Hierofanti Timoteo, che in maniera determinante aiutò e assistette Tolomeo I° nella sua riforma religiosa, fu un segno evidente della loro straordinaria vitalità. Essi, compendiando molti aspetti tratti anche da altri culti misterici ellenici e vicino-orientali, seguirono le numerose rotte mercantili che, sciamando da Alessandria, andavano a toccare, uno dopo l’altro, tutti i grandi e piccoli porti del Mediterraneo. Così, in breve tempo, non vi fu porto, scalo o grande città, in Oriente e in Occidente, che non avesse almeno un Tempio o un Santuario isiaco. Cominciando dall’area elladica, vediamo infatti che il culto è presente al Pireo sin dal IV° secolo a.C. e ad Atene il primo Iseo viene edificato nel 270 a.C., in ringraziamento dell’aiuto prestato da Tolomeo Filadelfo alle polis della Grecia contro la minaccia macedone. Sorsero inoltre luoghi di culto isiaci a Cheronea e a Orcomeno, in Beozia, già nel 216 a.C. ed in tali località Iside e Serapide divennero simbolo dell’emancipazione degli schiavi che si iniziavano ai loro Misteri. E Delo, la “capitale” religiosa delle Cicladi, sacra alla Dea Titana Leto (che vi aveva partorito Febo e Artemide) e baluardo dell’Eleusinità, vide sorgere sul suo territorio uno dei più grandiosi Santuari isiaci del mondo antico.

È impensabile che il Pritan degli Hierofanti Timoteo, e con lui l’intero clero dell’Eleusinità, non avesse previsto una simile e rapida diffusione al di fuori dell’Egitto di quel culto misterico che tanto aveva contribuito, in sintonia con Tolomeo I°, a “ristrutturare” e ad “ellenizzare”. Un culto misterico che, diffondendosi un po’ ovunque nell’area mediterranea e, successivamente, anche nell’Europa continentale e nel Vicino Oriente, avrebbe potuto potenzialmente fare “concorrenza” ai Sacri Misteri delle Due Dee, vale a dire all’Eleusinità Madre, e alle sue diramazioni e forme collaterali “Figlia”, quali quella Orfica e Samotracense, erodendone, almeno a livello popolare, la base dei fedeli. Ma in realtà non vi fu alcuna forte concorrenzialità fra Misteri Eleusini e Misteri Isiaci, come non ve ne fu, del resto, fra l’Eleusinità Madre e le sue forme e derivazioni “Figlia”. La particolare spiritualità e la mentalità religiosa, come del resto la stessa forma mentis, delle popolazioni mediterranee dell’età ellenistica e romana, fondate su una Paideia improntata sulla Filosofia, sulla tolleranza e sulla naturale apertura a Tradizioni religiose affini alle proprie, faceva sì che molti fedeli ed Iniziati richiedessero di farsi iniziare anche ad altri culti misterici diversi, ma comunque affini al proprio, anche e soprattutto per espandere ed imple-mentare la propria erudizione, la propria conoscenza e per accrescere la propria via esperienziale di avvicinamento e di contatto con il Divino. Ne sono fulgido esempio i più grandi eruditi di quel tempo, dagli stessi Plutarco ed Apuleio fino ad arrivare a Vettio Agorio Pretestato e ad Imperatori come Adriano e Giuliano.

Sorge allora spontaneo chiedersi quale fu il senso più profondo ed il reale significato dell’operazione a cui si prestò il Pritan Timoteo nel suo ruolo di principale consigliere della riforma di Tolomeo.

A mio parere il reale intento della massima autorità e guida dell’Eleusinità andava ben oltre un disinteressato aiuto al suo fedelissimo Sovrano dell’Egitto e alla mera istituzionalizzazione, anche nella Terra del Nilo, dei Misteri Eleusini, con l’apertura del grandioso Santuario di Alessandria. Ritengo piuttosto, anche se non vi sono documenti ufficiali che lo attestino, che le intenzioni di Timoteo fossero proprio determinare la grande diffusione – che di fatto è poi avvenuta – di un culto misterico sostanzialmente ellenizzato ed in parte “eleusinizzato”, che si affiancasse senza troppi problemi ai culti Eleusini e che al contempo fosse capace di catalizzare consensi e proseliti in aree e in strati sociali non già coperti dall’Eleusinità, togliendoli ai culti di matrice olimpica e patriarcale, veri nemici ed avversari (ed unici, almeno fino all’avvento alla diffusione della superstitio cristiana), della religiosità titanica di cui l’Eleusinità era espressione.

Se la mia ipotesi è corretta, possiamo tranquillamente affermare che l’operazione fu un successo, perché il culto isiaco si diffuse ovunque con grande rapidità. Si attestò in Italia già dal 105 a.C., con l’edificazione degli splendidi Isei di Pompei e di Pozzuoli, in una regione, la Campania, in cui questo culto si radicò profondamente e dalla quale si diffuse poi a Roma, dove già verso l’80 a.C. è attestata una prima confraternita isiaca.

Il culto misterico greco-egizio, nella sua prima fase di espansione nei territori soggetti all’Urbe, dove attecchì soprattutto fra le masse popolari, non fu inizialmente visto di buon occhio dalle autorità della Repubblica, le quali emanarono addirittura alcune ordinanza di soppressione (nel 58, nel 54 e nel 50 a.C.); ordinanze però da intendersi più come atti formali che come vere azioni repressive, poiché non sussistevano più quelle ragioni, sia strategico-politiche che di sicurezza che avevano portato, nel 185 a.C., alla giusta repressione delle pratiche del culto dionisiaco. Infatti, dopo queste iniziali resistenze, non trovò di fatto più ostacoli alla sua diffusione e propagazione, divenendo in breve tempo uno dei culti misterici più capillarmente diffusi in tutte le provincie dell’Impero, secondo soltanto ai Misteri Eleusini, condividendo con essi, dopo l’avvento e l’imposizione del Cristianesimo, la terribile fase delle persecuzioni.

La colossale testa di Isis-Sothis-Demeter, un tempo collocata nel ginnasio di Villa Adriana a Tivoli, oggi nei Musei Vaticani

 

 

NEGOZIO

 

 

[1] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, I°.

[2] Anna Maria Corradini: Mysteria: i Misteri al femminile nella Sicilia antica. Fonti letterarie e archeologiche. Ed. Tipheret, Acireale-Roma 2011.

[3] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, V°, 69.

[4] Diodoro Siculo: Bibliotheca Historica, I°, 29.

[5] Pausania: Periegesi della Grecia: I°, 2, 6.

[6] Apollodoro: Biblioteca, III°, 14, 6.

[7] Tacito, Storie, IV°, 83.

[8] Gli evidenti aspetti di ellenizzazione e di eleusinizzazione del culto misterico di Iside e Osiride sviluppatosi con Tolomeo e successivamente diffusosi in tutto il Mediterraneo saranno prese in esame nelle prossime pagine, con l’analisi del De Iside et Osiride di Plutarco.

[9] Lucio Apuleio: Le Metamorfosi.

[10] Nicola Turchi: Le Religioni dei Misteri nel mondo antico. Ed. Fratelli Melita, Genova 1987.

[11] Plutarco di Cheronea: De Iside et Osiride, IX°.

[12] Vincenzo Cilento (a cura di): Plutarco, diatriba isiaca e Dialoghi Delfici. Ed. Sansoni, Firenze 1962.

[13] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XII°.

[14] Uadjet, il cui nome significa letteralmente “del colore del papiro”, chiamata Buto o Butis dai Greci che la assimilarono alla Dea Titana Leto, è una Divinità antichissima il cui culto viene ritenuto originario di Per-Uadjet, sul delta del Nilo. Raffigurata con le sembianze di un cobra, con l’unificazione dei segni predinastici divenne la protettrice del Faraone e la personificazione del Basso Egitto, come la Dea Nekhbet, raffigurata con le sembianze di un avvoltoio, impersonificava l’Alto Egitto. Le due Dee, come personificazioni e patrone delle due parti della Nazione, venivano infatti ritratte spesso insieme.

A Uadjet veniva associato inoltre l’Ureo, simbolo della regalità a forma di serpente steso in posizione di sfida, pronto a sputare veleno su tutti i nemici del Sovrano o a incenerirli con il suo sguardo infuocato. Secondo varie tradizioni, a Udjet Iside avrebbe affidato il figlio Horus (secondo altre versioni, invece, sia Horus il Vecchio che Horus il Giovane), mentre era alla ricerca del corpo di Osiride, e la Dea vegliava su di lui sull’isola di Chemmis, situata in un grande lago nei pressi della città di Butis. Tale isola, coperta di palme e di altri alberi, affinché meglio potesse proteggere il figlio di Osiride dalla malvagità di Seth, venne resa dalla Dea fluttuante, un interessante parallelismo con l’isola egea di Delos, dove Leto partorì, secondo la Tradizione Eleusina, Febo e Artemide. Anche Delos, infatti, secondo la Tradizione, era un’isola fluttuante che venne poi ancorata al fondale marino.

[15] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XIX°

[16] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XL°.

[17] Plutarco di Cheronea: Opera citata, XLII°

[18] Vedasi il capitolo Le Tribù e le Coorti Primarie di Eleusi.

[19] The Oxyrhynchus Papyri (edd. B.P. Grenfell – A.S. Hunt) XI (1915) n. 1380.